«Non si preoccupi. E... le spedirò un assegno. Potrebbero volermici alcuni giorni per mettere insieme il malloppo, ma lo farò. Quanto?»

«Cinquecento dollari».

«Le spedirò un assegno oggi stesso».

«Preferisco non accettare compensi fino a quando un cliente non è stato soddisfatto», disse Talley. Si era fatto più riservato. I suoi occhi azzurri erano freddi e distanti.

«Come vuole», annui Carmichael. «Io vado fuori a celebrare. Lei... beve?»

«Non posso lasciare il negozio».

«Be', arrivederci. E grazie di nuovo. Non le causerò nessun guaio, sa. Glielo prometto!» Si girò e usci.

Seguendolo con lo sguardo, Talley ebbe un sorriso forzato e infelice Non ricambiò il saluto di Carmichael. Non quella volta.

Quando la porta si chiuse dietro Carmichael, Talley andò sul retro del suo negozio ed entrò nel locale dove si trovava l'analizzatore.

 

Un periodo di dieci anni può coinvolgere una miriade di cambiamenti. Un uomo che può contare su un tremendo potere quasi a portata di mano può, in quell'intervallo di tempo, trasformarsi da un uomo che non vuole allungare la mano a un uomo che è senz'altro pronto a farlo... e al diavolo i valori morali!

La trasformazione non si manifestò tanto in fretta in Carmichael. Va tutto a onore della sua integrità il fatto che ci volessero dieci anni perché una simile trasformazione avvenisse... un'alterazione completa di tutto ciò che gli era stato insegnato. Il giorno in cui era entrato per la prima volta nel negozio di Talley c'era ben poca malvagità in lui. Ma la tentazione era destinata ad accrescersi irresistibilmente una settimana dopo l'altra, visita dopo visita. Talley, per motivi suoi, era soddisfatto di starsene seduto lì in ozio, in attesa dei clienti, soffocando le inconcepibili possibilità della sua macchina sotto una cortina fumogena di funzioni banali. Ma Carmichael non si accontentava.

Gli ci vollero dieci anni per arrivare a quel giorno, ma il giorno arrivò. Talley sedeva nella stanza interna, la schiena rivolta alla porta. Adesso se ne stava rilassato su un'antica sedia a dondolo, gli occhi rivolti alla macchina. Era cambiata ben poco nello spazio d'un decennio. Copriva ancora la maggior parte di due pareti, e l'oculare dell'analizzatore luccicava sotto luci fluorescenti ambrate.

Carmichael fissò bramoso l'oculare. Era una finestra, anzi, una porta che si apriva su un potere al di là dei sogni di qualsiasi uomo. Una ricchezza al di là di qualunque immaginazione si trovava appena oltre quello spioncino. Il diritto alla vita e alla morte di qualunque uomo vivente. E non c'era nulla, tra lui e quel favoloso futuro, se non l'uomo che stava lì seduto, guardando la macchina.

Talley non parve udire quei passi cauti, o il lieve cigolio della porta alle sue spalle. Non si mosse quando Carmichael sollevò lentamente la pistola. Chiunque avrebbe pensato che fosse ben lungi dall'immaginarsi ciò che stava per capitargli, e neppure perché, o da parte di chi, quando Carmichael gli sparò attraverso la testa.

 

Talley sospirò e rabbrividi un poco, e ruotò la monopola dell'analizzatore. Non era la prima volta che la macchina gli mostrava il suo corpo privo di vita, intravisto in fondo a qualche sequenza di probabilità nel futuro, ma non aveva mai puntato gli occhi sull'accasciarsi di quella figura fin troppo familiare senza che un alito d'incredibile gelo soffiasse su di lui all'indietro dal futuro.

Alzo la testa, raddrizzò la schiena e si lasciò andare contro la sedia. Fisso gli occhi, pensieroso, su un paio di scarpe dalla suola ruvida che giacevano accanto a lui, sul tavolo. Restò seduto in silenzio per un po', gli occhi sempre puntati sulle scarpe, mentre seguiva con la mente Carmichael lungo la strada, nella luce calante della sera, e la mattina dopo, e avanti, un giorno dopo l'altro, fino alla crisi successiva, il cui esito sarebbe dipeso dalla solidità dell'appoggio dei suoi piedi sulla banchina di una stazione della metropolitana, mentre un treno passava rimbombando accanto al punto esatto dove Carmichael si sarebbe trovato un giorno della settimana seguente.

Questa volta Talley aveva mandato fuori il suo fattorino ad acquistare due paia di scarpe. E un'ora prima aveva esitato a lungo fra il paio di scarpe a suola ruvida e quello con la suola liscia. Giacché Talley era umano, ed erano molte le volte in cui il suo lavoro gli ripugnava. Ma questa volta, alla fine, era stato il paio di scarpe dalla suola liscia ad essere incartato per Carmichael. Ora, Talley sospirò e tornò a curvarsi per osservare il futuro dentro la macchina, girando il regolare per riportare alla sua vista una scena che aveva già osservato prima.

Carmichael, in piedi sull'affollata banchina della metropolitana, la quale luccicava d'un'umida chiazza oleosa dovuta a un qualche traboccamento. Carmichael, con le scarpe dalla suola liscia che Talley aveva scelto per lui. Un movimento tumultuoso della folla, una spinta verso l'orlo della banchina: i piedi di Carmichael scivolarono spasmodicamente quando il treno passò ruggendo.

«Addio, signor Carmichael», mormorò Talley. Era il saluto che non aveva pronunciato quando Carmichael aveva lasciato il negozio. Lo pronuncio con rincrescimento... e il rincrescimento era per il Carmichael di oggi, che non si meritava una simile fine. Oggi, non era un furfante melodrammatico alla cui morte si poteva assistere impassibili. Ma il Tim Carmichael di oggi doveva espiare per il Carmichael di dieci anni dopo, e il pagamento doveva, inesorabilmente, essere riscosso.

 

Non e una bella cosa avere il potere di vita e di morte sui propri simili. Peter Talley sapeva, appunto, che non era una bella cosa — ma quel potere era stato posto tra le sue mani. Lui non l'aveva cercato. Gli pareva che la macchina fosse cresciuta quasi per caso, fino al suo incredibile completamento, sotto le sue dita e la sua mente addestrate.

Sulle prime, la cosa l'aveva riempito di perplessità. Come avrebbe dovuto usare un simile congegno? Quali pericoli, quali terribili potenzialità si nascondevano in quell'occhio che poteva vedere attraverso il velo del domani? Sua era la responsabilità, e aveva pesato molto su di lui, finché la risposta non era venuta. Ma, quando aveva saputo la risposta, il peso... be', il peso era stato ancora maggiore.

Giacché Talley era un uomo mite.

Non avrebbe potuto dire a nessuno perché faceva il negoziante. Per la soddisfazione, aveva detto a Carmichael. E a volte, si, c'era davvero una profonda soddisfazione. Ma altre volte — in momenti come quello — c'erano soltanto sgomento e umiltà. Soprattutto umiltà.

Noi abbiamo ciò che ti serve? Soltanto Talley sapeva che quel messaggio non era per gli individui che, uno alla volta, entravano nel suo negozio. Quel pronome, si, era proprio inteso al plurale, non al singolare. Era un messaggio per il mondo intero — il mondo il cui futuro veniva riplasmato con attenzione e amore sotto la guida di Peter Talley. Non era facile modificare la linea principale del futuro... Il futuro è una piramide che prende forma con lentezza, un mattone dopo l'altro, e Talley doveva appunto cambiarlo un mattone dopo l'altro. C'erano uomini che erano indispensabili — uomini che avrebbero creato e costruito — uomini che dovevano venir salvati.

Talley dava loro ciò che serviva.

Ma, inevitabilmente, c'erano altri uomini il cui corpo era il male. Anche a loro Talley dava ciò di cui il mondo aveva bisogno: la morte.

Peter Talley non aveva chiesto quel terribile potere. Ma nelle sue mani era stata posta la chiave, e lui non osava delegare ad altri una simile autorità... a nessun altro uomo vivente. A volte, anche lui. commetteva errori.

Si era sentito un po' più sicuro di sé quando gli era venuta in mente l'allegoria della chiave. Sì, la chiave del futuro. Una chiave che era stata posta nelle sue mani.

Ricordando ciò, si lasciò andare nuovamente contro lo schienale di quella vecchia sedia, e allungò la mano verso un libro dall'aspetto consunto. Il libro si aprì con facilità su un passo a lui familiare. Le labbra di Peter Talley si mossero silenziose mentre leggeva, una volta ancora, quel passo, in quella piccola stanza sul retro del negozietto in Park Avenue:

«Ed io ti dico, che tu sei Pietro... E io darò a te le chiavi dei regno dei cieli...»

 

De Profundis

De Profundis

di Murray Leinster

Thrilling Wonder Stories, Inverno

 

Il terzo contributo di Murray Leinster al meglio del 1945 è una intensa, forte storia in prima «persona» d'un individuo con un problema. Le virgolette che inquadrano quella parola, persona, stanno a significare che questa è una di quelle rare storie che vengono raccontate dal punto di vista alieno. La fantascienza degli anni Quaranta di solito preferiva metter l'accento sulle idee, a scapito dello sviluppo in profondità dei personaggi, ma non è questo il caso di «De Profundis».

 

(È possibile trovarsi con gli elementi essenziali d'una storia su una intelligenza aliena anche senza mai lasciare la Terra. «Uccisore-di-Giganti» ne era un esempio. Questo è un altro.

È certo una buona occasione per far della satira, quando si ha a che fare con un'intelligenza riflessiva e indagatrice, ma del tutto ignorante di faccende che per il lettore sono scontate. Non possiamo fare a meno di sorridere, o anche ridacchiare, davanti agli errori che l'alieno commette, alle false conclusioni alle quali arriva.

Eppure, una storia come questa, non serve (o non dovrebbe servire) unicamente come motivo di divertimento per noi. Dovrebbe piuttosto sollevare la domanda: Cos'è che noi non capiamo, e che potrebbe divertire qualcuno che ne sa più di noi? A quali false conclusioni noi arriviamo a causa della nostra ignoranza? In breve, in quali e quanti modi facciamo la parie degli sciocchi?

E di far la parte degli sciocchi possiamo esser sicuri. Non faremmo mai la figura degli sciocchi con l'intensità con cui la facciamo, se soltanto riuscissimo a farci entrare in testa che la possibilità di fare la figura degli sciocchi esiste, eccome! I.A.)

 

Io, Sard, faccio rapporto al Shadi durante le Maree della Pace, avendo compiuto un viaggio di ricerca suggerito dallo scienziato Morpt quando discusse con me di un Oggetto caduto dentro Honda dalla Superficie. Temo che il mio rapporto non verrà accettato come veritiero. Perciò, in attesa dei verdetto sulla mia salute mentale, do questo rapporto perché sia accettato come scienza o come delirio a seconda della scelta del Shadi...

Ero presente quando l'Oggetto è caduto. In quel momento ero in comunicazione con lo scienziato Morpt, che stava meditando sui fatti dell'universo. Era piuttosto assonnato, e la sua mente s'impegnava al problema più per senso del dovere che per un'autentica ispirazione mentre rifletteva — a beneficio nostro, dei suoi studenti, cioè — sulle prove della teoria di Caluph sulla struttura dell'universo, secondo la quale questo e, in sostanza, un guscio di materia solida pieno d'acqua la quale, venendo respinta, per sua stessa natura, dal centro, acquista pressione, e noi, gli Shadi, viviamo nella regione di maggior pressione. Morpt si era quasi appisolato del tutto mentre rifletteva, per nostra informazione, che questa teoria giustifica tutti i fenomeni fisici conosciuti, salvo l'esistenza del gas, una sostanza che non è né solida né liquida e si trova soltanto nelle nostre vesciche natatorie. Per questa ragione si suppone, di solito, che sia la nostra parte immortale, la quale s'innalza fino al centro dell'universo quando il nostro corpo si consuma, onde esistere colà per sempre.

Mentre meditava, ricordai gli esperimenti di Morpt, secondo i quali una parte di questo gas poteva venir espulso dal corpo di un Shadi ed esser tenuto in un contenitore rovesciato, mentre il corpo formava una nuova riserva di gas nella vescica natatoria. Aspettavo con ansia l'acuto, penetrante ragionamento di Morpt, il quale aveva sempre negato che una sostanza — per quanto rara e singolare — in grado d'esser confinata in un contenitore, e per di più d'essere espulsa e sostituita in un corpo, possa costituirne l'essenza vitale. Questi esperimenti di Morpt hanno causato grandi turbamenti nei circoli scientifici.

In quel momento, comunque, era soltanto un insegnante assonnato, il quale pensava, mezzo addormentato, una lezione che aveva pensato altre centinaia di volte. Era un po' infastidito da una pietra aguzza conficcata a metà dentro il suo settimo tentacolo, che, però, non era abbastanza scomoda da indurlo a muoversi.

Io giacevo nella mia caverna in ansiosa attesa. Poi, d'un tratto, fui conscio di qualcosa che stava scendendo dall'alto. L'istinto della nostra razza è di bloccare il trasferimento del pensiero e ghermire il cibo prima che chiunque altro se ne accorga, entrando a sua volta fulmineamente in azione. Mi gettai subito fuori della mia caverna e mi portai nello spazio sotto l'Oggetto. Sollevai i miei tentacoli per afferrarlo. Tutto il procedimento fu automatico: attivazione del blocco mentale, percezioni esterne protese al massimo, messa a fuoco d'ogni immagine mentale proveniente dall'Oggetto che affondava per prevenire ogni suo tentativo di fuga... ma ogni Shadi ben sa come tutto ciò si faccia per puro istinto, ogni qualvolta qualcosa di mobile giunge alla nostra portata.

 

Tuttavia, due fatti specifici influenzarono il mio comportamento dopo quella prima reazione automatica. Primo, mi ero già nutrito, e da poco. Secondo: ricevetti delle immagini mentali dall'interno dell'Oggetto che curiosamente concordavano con l'argomento della lezione di Morpt e i miei personali pensieri in quel momento. Quando il mio primo tentacolo si calò su quell'Oggetto che scendeva, invece di pensieri di paura e di battaglia, intercettai il messaggio d'una entità che stava esprimendo disperazione, rivolgendosi a un'altra.

«Mia cara, non rivedremo mai più la Superficie», stava pensando.

E ricevetti, nel medesimo istante, una vivida immagine di cos'è la Superficie. Dal momento che descriverò quest'ultima più tardi, ometto la descrizione dell'immagine mentale che ricevetti, restandone quasi abbacinato. Mi diede, comunque, da pensare. E credo sia stata una fortuna. Tanto per cominciare, se avessi spinto l'Oggetto dentro le mie fauci, come l'istinto m'induceva a fare, credo che avrei avuto non pochi problemi a digerirlo. L'Oggetto, come ebbi modo di scoprire ben presto, era fatto di quella rara sostanza solida che compare soltanto sotto forma di manufatti. Un campione del genere è stato descritto a più riprese da Glor. E lungo circa la metà del corpo d'uno Shadi, cavo, appuntito a un'estremità, con uno dei fianchi stranamente piatto, e con escrescenze dalla forma strana, aperture, e due alberi e un tubo cavo che spuntano da esso.

Come ho detto, l'Oggetto era fatto di questo strano materiale solido. Il mio senso spaziale mi disse subito che era cavo. In più, era anche pieno di gas! E ricevevo delle immagini mentali in conflitto fra loro, le quali mi dicevano che c'erano due creature vive dentro di esso! Lasciate che ripeta: c'erano due entità viventi all'interno dell'Oggetto, e vivevano nel gas invece che nell'acqua!

Ero stupefatto. Per lungo tempo non fui conscio di nient'altro che non fossero i pensieri delle creature all'interno dell'Oggetto. Tenevo saldamente l'Oggetto fra due dei miei tentacoli, sbalordito per quell'incredibile fatto. Fui estremamente incauto. Avrei potuto essere ucciso e consumato mentre me ne stavo lì, paralizzato dalla sorpresa. Ma subito mi ripresi, e tornai in fretta alla mia caverna, portando con me l'Oggetto. Mentre facevo questo, fui conscio di pensieri che esprimevano una viva sorpresa:

«Abbiamo toccato il fondo... no! Qualcosa ci ha afferrati. Qualcosa di dimensioni mostruose. Presto sarà finita, ormai...»

Non in diretta risposta, ma in modo indipendente, l'altra entità pensò cose profondamente emotive che mi è impossibile descrivere. Incomprensibili per me. Il prodotto d'una psicologia così aliena nei confronti della nostra che non c'è alcun modo di esprimerle. Posso soltanto dire che la seconda entità era in preda alla più completa disperazione, e perciò bramava intensamente essere stretta fra i due tentacoli dell'altra entità. Ciò, a mio modo di vedere, dovrebbe mettervi in una condizione di totale impotenza, ma è proprio questo che la seconda creatura agognava. Riferisco il fatto senza fare nessun tentativo per spiegarlo.

Mentre scivolavo dentro la mia caverna, mandai casualmente l'Oggetto a sbattere contro il bordo superiore dell'apertura. Fu un colpo duro. Ricevetti di nuovo un'improvvisa ondata di disperazione.

«Ci siamo!» pensò la prima creatura, e si aspettò, con orrore, il rovesciarsi dell'acqua dentro all'Oggetto pieno di gas.

Dal momento che la psicologia di queste creature è del tutto inesplicabile, mi limiterò soltanto a riassumere le poche immagini mentali che ricevetti durante il successivo, breve periodo. Furono queste immagini che, in qualche modo, spiegarono la storia dell'Oggetto.

Tanto per cominciare, si era trattato d'un esperimento scientifico. L'Oggetto era stato creato per contenere il gas dentro il quale quelle creature vivevano, consentendo poi che questo gas fosse calato nelle regioni della pressione. Le due creature appartenevano alla stessa specie, ma erano diverse in un modo per il quale noi non abbiamo pensiero. Una pensava a sé come ad un "uomo", e l'altra come a una "donna". Non avevano nessuna paura l'una dell'altra. Avevano accompagnato l'Oggetto allo scopo di registrare le loro osservazioni nella regione della pressione. Per effettuare queste osservazioni avevano sospeso l'Oggetto a un lungo tentacolo che partiva da uno di quei manufatti descritti da Glor.

Una volta che avessero osservato, avrebbero dovuto esser riportati a quel manufatto. Poi il gas sarebbe stato liberato e le due creature si sarebbero riunite ai loro compagni. Il fatto che due creature potessero rimanere assieme, e che entrambe si sentissero sicure, l'una in presenza dell'altra, è già uno strano pensiero. Ma i loro pensieri mi dissero che quaranta o cinquanta altri della loro stessa specie li aspettavano sul manufatto, tutti ugualmente privi dell'istinto di nutrirsi l'uno dell'altro.

Ciò vi sembrerà impossibile, naturalmente, ma io mi limito qui a descrivere le immagini che ricevetti. Era comunque accaduto che, giunto alla massima lunghezza, il tentacolo che sosteneva l'oggetto si era rotto. Perciò l'Oggetto era affondato nelle regioni della pressione dove noi Shadi viviamo. Mentre si avvicinava alla solidità, io avevo allungato un tentacolo, avevo afferrato l'oggetto e per miracolo non l'avevo inghiottito. Avrei potuto farlo facilmente.

 

Là, dentro alla mia caverna, dopo che per un po' di tempo mi ero limitato a ricevere i pensieri che provenivano da dentro l'Oggetto, cercai di comunicare. Per prima cosa, com'è naturale, cercai di paralizzare le due creature con la paura. Ma esse non parvero consapevoli della presenza di un'altra mente. Tentai allora, con più delicatezza, di conversare con loro. Ma parevano del tutto prive della facoltà di ricevere. Sono creature razionali ma, avendo le menti bloccate, sono del tutto inconsce dei pensieri degli altri. In effetti, era chiaro che i pensieri dell'una costituivano un segreto per l'altra.

Cercai di capire il perché di tutto questo, ma non ci riuscii. Alla fine, dopo molti inutili sforzi, colto da un doveroso e profondo senso di umiltà, inviai una chiamata mentale a Morpt. Questi stava ancora spiegando in tono sonnolento i vari dettagli della teoria di Caluph — cioè, che il gas uscito dalle vesciche natatorie dei Shadi morti si è tutto raccolto al centro dell'universo in una grande bolla, e che il bordo tra la bolla centrale di gas e l'acqua è la leggendaria Superficie.

Le leggende della Superficie sono ben note. Morpt rifletté, con sonnolenta ironia, che se il gas è la porzione immortale d'uno Shadi, allora, dal momento che due Shadi, quando capitano l'uno in vita dell'altro, iniziano subito a combattere fino alla morte, la grande bolla di gas al centro dell'universo dev'essere la scena d'un gigantesco, eterno, splendido combattimento. Ma la sua ironia andò perduta con me. L'interruppi per dirgli dell'Oggetto e di ciò che avevo già appreso da esso.

Sentii subito altre menti affollarsi in me. Tutti gli allievi di Morpt si misero prontamente all'erta. Oscurai la mia mente con una cautela maggiore del solito per evitar di fornire qualche indicazione della posizione della mia caverna — e servii la scienza meglio che potevo. Dissi con franchezza tutto ciò che sapevo.

In altre condizioni, sarei stato orgoglioso dello scalpore da me suscitato. Parve che ogni Shadi dell'Honda si fosse unito alla discussione. Molti, com'era ovvio, dissero che mentivo. Ma in quel momento ero ben nutrito e pieno di curiosità, perciò non rivelai dove mi trovavo a quelli che mi sfidarono. Aspettai. Perfino Morpt cercò di stuzzicarmi, sperando che facessi qualche incauta rivelazione, e fu colto da un tipico accesso di collera shadi quando non ci riuscì. Ma Morpt ha esperienza, ed è gigantesco. Non avrei avuto nessuna speranza di sopravvivere se ci fossimo affrontati fuori delle Maree della Pace.

Comunque, una volta convinto che non sarebbe stato possibile farmi cadere in trappola, Morpt accettò di discutere il fatto spassionatamente e alla fine suggerì il viaggio dal quale sono appena tornato. Mi consigliò — se, malgrado la mia cautela nei confronti degli altri Shadi (tutti gli allievi di Morpt avranno certo riconosciuto l'ironico tono di sfida con cui pensò questo), non avevo paura di servire la scienza — di riportare l'Oggetto alle Altezze. Avrei dovuto chiedere, naturalmente, istruzioni alle creature dentro l'Oggetto. A mia volta, come protezione dalla loro specie avevo la mia forza e la mia ferocia. Per affrontare le condizioni delle Altezze, Morpt mi ricordò i suoi esperimenti, come l'unica possibile salvaguardia.

Morpt mi disse, come già sapevo, che il gas delle nostre vesciche natatorie si espande man mano la pressione diminuisce. In condizioni normali abbiamo dei muscoli che le controllano, cosicché ci è possibile fluttuare all'inseguimento delle nostre prede oppure affondare, a volontà, fino alla solidità. Ma, aggiunse, man mano mi fossi avvicinato all'Altezza, avrei scoperto che la pressione si sarebbe ridotta al punto che perfino i miei muscoli sarebbero stati incapaci di controllare il gas. In queste condizioni, come avevano mostrato gli esperimenti di Morpt, avrei dovuto liberarne una parte. Poi, avrei potuto ridiscendere.

Altrimenti il mio stesso gas in espansione mi avrebbe trascinato sempre più in alto, magari rompendo la cavità natatoria e invadendo altre parti del corpo; espandendosi sempre di più, avrebbe finito per trascinarmi fino alla Superficie e alla bolla centrale della teoria di Caluph.

 

In questo caso, commentò argutamente Morpt, sarei diventato l'unico Shadi a sapere se Caluph aveva oppure no ragione, ma era assai improbabile che avrei potuto far ritorno a raccontarlo. Tuttavia, insisté a ribadire che, se avessi fatto delle soste per espellere un po' di gas tutte le volte che avessi provato un'eccessiva spinta di galleggiamento, quasi certamente sarei riuscito a portare l'Oggetto assai vicino alla Superficie, ottenendo così una prova definitiva della verità (o dell'errore) dell'intera cosmologia di Caluph, rendendo così un grande servigio alla scienza. I penseri provenienti dall'interno dell'Oggetto mi sarebbero stati di grande aiuto nell'impresa.

Decisi subito che avrei fatto il viaggio. Tanto per cominciare, non ero affatto sicuro che sarei riuscito a tenere nascosto il luogo dove abitavo, se fossi stato sondato in continuazione da menti più vecchie e più esperte. Soltanto menti di estrema potenza, come quella di Morpt e di altri insegnanti, possono rischiare d'esporsi a continue, e sempre più avide, ispezioni. Com'è ovvio, è proprio dagli errori e dalle imprudenze commesse dai loro studenti, che gli insegnanti traggono il maggior vantaggio...

Sarebbe stata un'autentica prova di saggezza da parte mia lasciare la mia caverna, adesso che avevo richiamato a tal punto l'attenzione su di me. Così, rafforzai al massimo il mio blocco mentale e, con l'Oggetto stretto in un tentacolo, scivolai rapido su per il pendio che circonda Honda, prima che altri Shadi pensassero di pattugliarlo, alla mia ricerca... e alla ricerca l'uno dell'altro.

Salii molto al di sopra del mio solito livello, prima di fare una sosta. Arrivai talmente in alto che il gas nella mia vescica natatoria cominciò a crearmi un sensibile fastidio. Feci le contorsioni che mi aveva suggerito Morpt, finché non ne uscì una parte. Potrà parervi strano che l'abbia fatto con assoluta tranquillità. Ma la mia curiosità era ormai coinvolta, e noi Shadi siamo sperimentatori inveterati. Così, trovai possibile compiere quest'atto — la deliberata liberazione d'una parte del contenuto della mia vescica natatoria — che avrebbe riempito d'orrore, fino a poco tempo fa, intere generazioni di Shadi.

Morpt aveva ragione. Fui in grado di proseguire la mia ascesa senza nessuna scomodità. Inoltre, man mano l'Altezza aumentava, la mia mente aveva sempre più cose a cui pensare. Le due creature — l'uomo e la donna — dentro all'Oggetto, erano stupefatte per ciò che era accaduto al loro contenitore.

«Siamo risaliti di seicento metri dalla nostra massima profondità», disse l'uomo alla donna.

«Mio caro, non devi mentire per farmi coraggio», rispose la donna. «Non m'importa. Non avresti mai potuto tenermi fuori dalla batisfera... preferisco morire con te, piuttosto che vivere senza di te».

Simili pensieri non sembrano compatibili con l'intelligenza. Una razza con una simile psicologia sembrerebbe destinata a estinguersi. Ma non ho la pretesa di capire. Continuai verso l'alto, fino a quando non mi trovai costretto a ripetere un'altra volta gli esercizi raccomandati da Morpt. I movimenti necessari scossero violentemente l'Oggetto. Le creature dentro di esso si chiesero, disperate, il perché di quelle scosse. A queste creature non soltanto manca la facoltà ricettiva, cosicché i loro pensieri rimangono segreti l'uno per l'altro, ma a quanto pare non possiedono nessun senso spaziale, nessun senso della pressione, e sembrano perfino mancare di quel ciclo degli istinti che è così necessario a noi Shadi.

Durante tutto il tempo del mio contatto con la loro mente, non ho trovato nessun pensiero di qualcosa che assomigliasse anche in modo approssimativo alle Maree della Pace, quando noi Shadi cessiamo del tutto di nutrirci e, perciò, d'istinto cessiamo di temerci l'un l'altro e ci mescoliamo liberamente per generare. C'è da chiedersi come la loro razza possa continuare a esistere senza le Maree della Pace, a meno che la loro intera vita non si svolga in una Marea della Pace. Ma in questo caso, poiché nessuno si nutre durante le Maree della Pace, perché non muoiono di fame? Davvero, sono inesplicabili.

Fissavano con estrema attenzione i loro strumenti, man mano l'ascesa continuava. Gli strumenti sono manufatti che quelle creature usano per supplire ai loro sensi difettosi.

«Milleduecento metri», disse l'uomo alla donna. «Soltanto il cielo sa cosa è accaduto!»

«Pensi che ci sia una speranza per noi?» chiese la donna con struggente desiderio.

«E come potrebbe esserci?» si chiese l'uomo, in tono amaro. «Siamo sprofondati fino a una profondità di cinquemilacinquecento metri. Ci sono quasi tre miglia d'acqua sopra le nostre teste, e l'ossigeno non durerà per sempre. Vorrei tanto non averti lasciato venire con me. Se soltanto tu fossi lassù, al sicuro!»

 

Cinquemilacinquecento metri — qualunque cosa ciò significasse — sopra l'Honda, le caratteristiche delle creature viventi erano cambiate. Tutte le forme di vita erano più piccole, e il loro senso spaziale pareva imperfetto. Non erano consce della mia venuta finché, praticamente, non gli ero addosso. Due dei miei tentacoli si affaccendarono senza soste a ghermirle al passaggio. Le luci dei loro corpi erano meno brillanti di quelle delle creature inferiori dell'Honda.

Continuai la mia salita fluttuante verso la Superficie. Di tanto in tanto mi fermavo ad eseguire gli esercizi di Morpt: il volume di gas che liberavo dalla mia vescica natatoria era incredibile. Ricordo di aver pensato, alla stessa maniera ironica di Morpt, che se ogni Shadi possedeva una porzione immortale così ampia, la bolla centrale doveva esser più grande dell'intera Honda! Adesso le creature all'interno dell'Oggetto passavano da uno sbalordimento all'altro, guardando i loro strumenti.

«Siamo risaliti di duemilacinquecento metri», disse l'uomo, come stordito. «Eravamo scesi a cinquemilacinquecento metri, la più grande profondità in questa parte del mondo».

Il pensiero «mondo» si avvicina al concetto shadi per «universo», ma ci sono differenze che lasciano perplessi.

«Siamo tornati a salire d'una buona metà», aggiunse l'uomo.

«Pensi che la zavorra si sia staccata e galleggeremo fino alla superficie?» chiese la donna con ansia.

Il pensiero «zavorra» corrispondeva a una cosa legata all'Oggetto per farlo discendere, e che se si fosse staccata dall'Oggetto l'avrebbe fatto sollevare. Questa parrebbe una sciocchezza, poiché tutte le sostanze scendono, eccettuato il gas. Comunque, io mi limito a riferire soltanto ciò che ho percepito.

«Ma non stiamo galleggiando», obbiettò l'uomo. «Se così fosse, saliremmo costantemente. Invece, finora siamo saliti ogni volta di circa trecento metri, subendo poi una scossa così violenta quasi da morirne. Poi saliamo di altri trecento metri, e c'è un'altra scossa. Non stiamo risalendo liberamente. Veniamo trasportati. Ma il cielo sa cosa ci trasporta, e perché».

Questo, faccio notare, è segno di razionalità. Sapevano che la loro ascesa era del tutto inspiegabile, secondo i loro criteri. La mia curiosità crebbe. Dovrei spiegare a questo punto in che modo quelle creature conoscevano la loro posizione. Non hanno senso spaziale o un qualche senso della pressione. Per quest'ultimo usavano degli strumenti — manufatti — che rivelavano ad essi la loro ascesa. La cosa straordinaria era il fatto che ispezionavano questi strumenti per mezzo di una luce che non producevano essi stessi. Anche la luce era prodotta da un manufatto. E questa luce artificiale era intensa abbastanza da esser riflessa, non soltanto in modo percettìbile, ma anche assai chiaro, cosicché gli strumenti venivano visti soltanto per riflesso. Temo che Kanth, il quale grazie alla scoperta che la luce può esser riflessa si è guadagnato una grossa reputazione di scienziato, negherà che una luce qualsivoglia possa essere tanto potente da fare in modo che oggetti non luminosi sembrino possedere una propria luce, ma devo andare perfino oltre. Man mano imparavo a condividere con le creature dell'Oggetto non soltanto i pensieri formati in modo consapevole ma anche le loro impressioni sensoriali, appresi che per loro la luce ha qualità diverse. In altre parole, alcune luci hanno qualità che le rendono diverse da altre.

Essi chiamano, la luce che noi conosciamo, «azzurra». E conoscono altri termini, che definiscono «rosso», «bianco» e «giallo», e altri ancora. Come noi percepiamo la differenza nella solidità delle rocce e della melma, essi percepiscono la differenza negli oggetti a seconda della luce che riflettono. Dunque, essi possiedono un senso che noi Shadi non abbiamo. Sono ben conscio che gli Shadi sono il più elevato tipo di organismo possibile, ma quest'osservazione sulle creature dell'Oggetto — se non è follia — costituisce un'importante fatto da meditare.

Ma io continuai a fluire costantemente verso l'alto, fermandomi soltanto per eseguire le contorsioni indispensabili a espellere nuove porzioni di gas dalla mia vescica natatoria, la cui espansione minacciava di diventare incontrollabile. Man mano salivo sempre più in alto, l'uomo e la donna si riempirono di emozioni di natura del tutto straordinaria. Queste emozioni erano d'una intensità del tutto insopportabile per loro, e c'è da dubitare che uno Shadi abbia mai provato sensazioni del genere. Certo, l'emozione che essi chiamano «amore» è inconcepibile per uno Shadi, a meno che non si trovi a osservarla, appunto, in creature del genere. Essa conduce a ogni sorta di stravaganze... ad esempio la donna mise i suoi tentacoli gemelli intorno all'uomo e gli si aggrappò senza fare nessun tentantivo per sbudellarlo o squartarlo.

L'idea di due creature della stessa specie che assaporano il piacere di trovarsi insieme senza divorarsi fra loro — salvo che durante le Maree della Pace, com'è naturale — è quasi inconcepibile per uno Shadi. Tuttavia, sembra che sia parte integrante della loro psicologia.

Ma questo rapporto si sta facendo troppo lungo. Fluttuai sempre più verso l'alto. Le creature dell'Oggetto provavano emozioni sempre più intense e incredibili. In successione, l'uomo riferì alla donna che si trovavano soltanto a milleduecento dei loro «metri» sotto la Superficie, poi a seicento, poi a trecento. Adesso, ero completamente posseduto dalla curiosità. Avevo appena compiuto quello che risultò essere l'ultimo, indispensabile esercizio di Morpt e mi stavo muovendo ancora più in alto, quando il mio senso spaziale mi trasmise un nuovo, incredibile messaggio. Sopra di me, c'era una barriera alla sua capacità di funzionare.

Non posso in alcun modo trasmettervi la sensazione che si prova trovando una barriera al proprio senso spaziale. Ero consapevole dell'ambiente in cui mi trovavo in ogni direzione, ma a un certo punto, sopra di me, all'improvviso non c'era niente... niente! Niente!

A tutta prima, fu allarmante. Fluii verso l'alto di metà della mia lunghezza, e la barriera si fece più vicina. Con cautela, perfino con timore, fluii lentamente sempre più vicino.

«Centocinquanta metri», annunciò l'uomo dentro l'Oggetto. «Cielo, soltanto centocinquanta metri! Dovremmo cominciare a intravedere qualche barlume di luce attraverso gli oblò... No, adesso è notte».

Mi fermai, dibattendo tra me la situazione. Ero abbastanza vicino alla barriera da poter allungare il mio primo tentacolo e toccarla. Esitai a lungo. Poi la toccai. Non accadde nulla. Arditamente, vi cacciai dentro il tentacolo. E penetrò nel nulla. Là, dove adesso si trovava, non c'era acqua. Con viva emozione, mi resi conto che sopra di me c'era la bolla centrale e che io solo, fra tutti gli Shadi viventi, l'avevo raggiunta e avevo osato toccarla. La sensazione sul mio tentacolo all'interno della bolla, oltre la Superficie era quella d'un peso enorme, come se il gas degli Shadi defunti mi stesse spingendo indietro. Ma non mi attaccarono, non tentarono neppure di farmi del male.

Sì, ero tremendamente orgoglioso. Mi sentivo come se avessi sopraffatto e consumato uno Shadi grande il doppio di me. E mentre esultavo, fui conscio delle emozioni delle creature all'interno dell'Oggetto.

«Sessanta metri!» esclamò l'uomo, frenetico. «Non può fermarsi qui! Non deve! Mia cara, il destino non può essere così crudele!»

Provai piacere nell'avvenire le emozioni delle due creature. Adesso provavano una nuova emozione che era anch'essa assai strana, almeno quanto tutte le mie altre esperienze con loro. Era un'emozione che sembrava anticiparne altre. La donna le diede un nome.

«È follia», dichiarò all'uomo, «ma per qualche motivo, comincio a sperare di nuovo».

 

E, nel mio piacere e interesse intellettuale, parve una cosa proprio da niente, per uno come me che aveva già tanto osato, stimolare ancora un poco quelle emozioni.

Risalii ancora un poco. La barriera che bloccava il mio senso spaziale, la Superficie, si fece ancora più vicina.

«Trenta metri», disse l'uomo, con un'emozione che per lui era angoscia, ma che, per la sua novità, era una fonte di piacere intellettuale per me.

Trasferii l'Oggetto su uno dei tentacoli anteriori e lo spinsi avanti. Urtò contro la solidità del pendio, che in quel punto era molto vicino e addirittura penetrava oltre la Superficie.

L'uomo sperimentò con grandissima intensità quell'emozione chiamata «speranza».

«Cinquantacinque metri!» gridò. «Tesoro, se ricominceremo a scendere, aprirò il portello e noi usciremo fuori non appena la batisfera sarà completamente allagata. Non so se siamo oppure no vicini alla riva, ma tenteremo».

La donna gli si era premuta addosso. L'angosciata speranza che la riempiva era una sensazione che si mescolava piacevolmente con la grande euforia che provavo per il mio coraggio e il mio successo. Spinsi di nuovo l'oggetto in avanti. Qui la Superficie era così vicina alla Solidità che una parte del mio tentacolo sali sopra la Superficie. E le emozioni all'interno dell'Oggetto raggiunsero l'apice. Continuai a spingere con forza, contro il peso che mi schiacciava all'interno della Bolla, fino a quando anche P Oggetto ruppe la Superficie, e poi ancora più oltre, finché non fu più nell'acqua ma nel gas, adagiato sopra quella Solidità che era, essa stessa, toccata soltanto dal gas.

L'uomo e la donna lavorarono frenetici all'interno dell'Oggetto. Una parte di esso si staccò. Essi si arrampicarono fuori. Aprirono le loro fauci e pronunciarono grida. Si avvinghiarono l'un l'altro coi tentacoli e si toccarono vicendevolmente le fauci, non per divorarsi, ma per esprimere le loro emozioni. Si guardarono intorno storditi per il sollievo, ed io vidi attraverso i loro occhi. La Superficie si perdeva in lontananza fin dove i loro sensi erano in grado di rivelarla, era mobile e irregolare, eppure piatta. Si trovavano sopra una Solidità dalla quale delle cose sporgevano. Sopra, c'era una vasta oscurità, penetrata da innumerevoli piccole fonti risplendenti di luce.

«Grazie a Dio!» esclamò l'uomo. «Poter vedere di nuovo gli alberi e le stelle!»

Si sentivano del tutto sicuri, e in pace, come in una Marea della Pace moltiplicata per mille. E forse io ero inebriato dal mio ardimento o forse dalle emozioni che ricevevo da loro. Spinsi i miei tentacoli attraverso la Superficie. Il loro peso era enorme. Ma lo è anche la mia forza.

Con grande coraggio sollevai il mio corpo. Spinsi tutta la mia parte anteriore attraverso la Superficie dentro la bolla centrale. Ero nella bolla centrale e vivevo ancora! Il mio peso crebbe al di là di ogni possibile calcolo, ma per un lungo, orgoglioso intervallo, mi profilai sopra la Superficie e vidi con i miei occhi — tutti e ottanta — la Superficie sotto di me e il tratto di Solidità sopra il quale si trovavano l'uomo e la donna. Io, Sard, feci questo!

Mentre tornavo a sprofondare sotto la Superficie, ricevetti gli stupefacenti pensieri delle creature.

«Un serpente di mare!» pensò l'uomo, e dubitò della sua salute mentale, proprio come io temo che anche la mia sarà posta in dubbio. «Ecco cos'è stato».

«Perché no, tesoro?» rispose con calma la donna. «È stato un miracolo, ma non si poteva permettere che due persone, che si amano come noi ci amiamo, dovessero morire!»

Ma l'uomo fissava la Superficie sotto la quale ero scomparso. Colsi il suo pensiero turbato.

«Nessuno ci crederebbe. Direbbero che siamo pazzi. Ma, accidenti, qui c'è la nostra batisfera, e il nostro cavo si è spezzato proprio quand'eravamo sopra la Fossa. Quando ci troveranno, diremo soltanto che non sappiamo cos'è successo... e che cerchino pure d'immaginarselo loro!»

Rimasi in stato di riposo, vicino alla Superficie, pensando a molte cose. Dopo un lungo periodo ci fu luce. Una luce feroce e insopportabile. Divenne più forte, e ancora più forte. Era insopportabile. S'insinuava giù, fino alle più vicine profondità.

Ciò avvenne molte maree fa, poiché non osai far ritorno a Honda con una porzione così enorme dei gas della mia vescica natatoria liberati dentro la bolla centrale. Sostai non molto al di sotto della Superficie, fino a quando la mia vescica natatoria mi parve tornata normale. Scesi un tratto dopo l'altro, e ad ogni tappa aspettai finché la mia «parte immortale» non si fu riempita. È difficile nutrirsi adeguatamente con creature tanto piccole come quelle che abitano le Altezze. Mi ci volle molto tempo per completare la discesa, per tutto quel tratto che, grazie alla scoperta di Morpt, avevo eseguito con tanta rapidità in salita. Passai tutto il mio tempo da sveglio intento alla cattura del cibo, ed ebbi perciò poco tempo per meditare. Non una sola voita fui realmente sazio, durante tutte le soste che feci per aspettare che la mia vescica natatoria si riempisse. Ma quando feci alfine ritorno alla mia caverna, scoprii che, nel frattempo, era stata occupata da un altro Shadi. Mi nutrii assai bene.

Poi, arrivarono le Maree della Pace. E ora, avendo generato, metto il rapporto di questo mio viaggio alla Superficie a disposizione di tutti gli Shadi. Se verrà decretato che sono folle, non dirò altro. Ma questo è il mio rapporto.

Adesso decidete, o Shadi. Sono pazzo?

 

Io, Morpt, durante le Maree della Pace, ho ascoltato il rapporto di Sard, e dopo essermi consultato con altri Shadi, dichiaro che, con tutta evidenza, egli ha confuso l'immaginario con il reale.

Le descrizioni degli aspetti scientifici del suo viaggio, che non sono collegati con le supposte creature dell'Oggetto, si adeguano alla nostra scienza. Ma è manifestamente impossibile che qualsivoglia creatura possa vivere in modo permanente in vicinanza dei suoi compagni senza l'istinto di nutrirsi di essi. È manifestamente impossibile, altresi, che delle creature possano vivere nel gas. La distinzione fra luce e luce, poi, è una palese assurdità. La psicologia di creature come quelle descritte da Sard è frutto di sogni.

Perciò, per generale consenso, il rapporto presentato da Sard non è scienza. Comunque, non è detto che Sard sia folle. Gli effetti fisiologici del viaggio che ha ammesso di aver compiuto fino alle più grandi Altezze ha probabilmente provocato quei disordini, nel suo corpo, che sono sfociati in illusioni. La lezione scientifica che dobbiamo imparare da questo rapporto è che i viaggi alle Altezze, anche se possibili grazie agli esercizi corporali da me inventati, sono molto poco saggi e non dovrebbero esser mai compiuti dagli Shadi.

Redatto durante le Maree della Pace...

 

Pi nel cielo

Pi in the Sky

di Fredric Brown

Thrilling Wonder Stories, Inverno

 

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta uno dei bersagli prediletti per gli scrittori di fantascienza è stata l'industria della pubblicità, che subì pesanti attacchi, in particolare dalle pagine di Galaxy Science Fiction, di Horace Gold. Il capo riconosciuto di questo genere di attacchi era Frederik Pohl, che in romanzi e racconti come The Space Mercahts (1953, scritto insieme a C.M. Kornbluth), «Happy Birthday, Dear Jesus», e «The Tunnel under the World» (solo per citarne alcuni) smantellò l'intero ingranaggio produzione-consumo e le premesse sulle quali era fondato. Molti altri scrittori, da Ann Warren Griffith («Captive Audience») e John Jakes («The Sellers of the Dream») analizzarono a fondo quest'industria e le sue strategie.

Ma molto prima di questa tendenza generalizzata, ci fu Fred Brown, col suo «Pi nel cielo».

 

(Quanto sono splendide le meraviglie della semantica! Chiamatela «pubblicità», e, come dice Marty, i tizi intellettuali, come gli scrittori, sapranno trovare le parole più aspre per condannarla, le tecniche narrative più taglienti per farla a pezzi.

L'ho fatto anch 'io.

D'altro canto, chiamatela «attività promozionale», e gli scrittori accorreranno a torme da ogni direzione per prendervi parte. Con quanto ardore essi condannano i produttori di detersivi che reclamizzano le proprie merci. E con quanto, ancor di più, ardore, condannano gli editori che non reclamizzano abbastanza le proprie merci!

Immagino che tutto dipenda da chi è padrone del bue che c'è da scannare. Fred Pohl è invero il capo riconosciuto di questi fustigatori... ma una volta ho visto il programma d'un giro promozionale di Fred per uno dei suoi libri. Credo si sia fermato in ogni città con una popolazione superiore ai 400 abitanti, e cosa credete abbia fatto in ognuna di esse? Pubblicità al suo libro, naturalmente.

Ora, per quanto mi riguarda, io non viaggio, perciò non m'impegno in questi bassi espedienti, ma non sono neppure io un modello di virtù. Non credo ci sia uno scrittore al mondo che discuta di se stesso quanto faccio io... e anche questa è pubblicità. I.A.)

 

Roger Jerome Phlutter, per il cui assurdo nome non offro giustificazione alcuna, se non il fatto che è genuino, era, all'epoca degli avvenimenti qui narrati, un impiegato che sgobbava parecchio all'Osservatorio Cole.

Era un giovanotto non particolarmente brillante, anche se sbrigava i suoi compiti quotidiani con impegno ed efficienza. Studiava calcolo a casa, un'ora ogni sera, e sperava, un giorno, di diventare astronomo capo in qualche importante osservatorio.

Comunque sia, il nostro resoconto degli avvenimenti sulla fine di marzo dell'anno 1987 deve cominciare proprio con Roger Phlutter, per l'ottima e sufficiente ragione che lui, fra tutti gli uomini della Terra, fu il primo ad osservare l'aberrazione stellare.

Vi presento Roger Phlutter.

Alto, piuttosto pallido perché passava troppo tempo al chiuso, lenti spesse con montatura di tartaruga, capelli scuri tagliati corti alla maniera degli anni Ottanta, abbigliato né troppo bene né troppo male, fumava un po' troppe sigarette...

Alle cinque meno un quarto di quel pomeriggio, Roger era impegnato in due operazioni simultanee. Una consisteva nell'esaminare con un microcomparatore a sfarfallio una lastra fotografica presa la sera prima, d'una porzione della costellazione dei Gemelli; l'altra, nel valutare se, coi tre dollari che gli restavano della paga della settimana prima, poteva osare una telefonata a Elsie per chiederle di uscire con lui da qualche parte.

Non c'è dubbio che un qualunque giovanotto normale abbia condiviso in qualche momento della sua vita la seconda occupazione di Roger Phlutter, ma non tutti certamente avranno saputo non dico il funzionamento, ma l'esistenza stessa d'un microcomparatore a sfarfallio. Perciò distogliamo il nostro sguardo da Elsie e puntiamolo sui Gemelli.

Un microcompratore a sfarfallio, dunque, è un dispositivo ottico in cui s'inseriscono due lastre fotografiche dell'identica porzione di cielo, scattate in tempi diversi. Queste lastre vengono sovrapposte con grande attenzione, e l'operatore può mettere a fuoco nell'oculare, prima l'una e poi l'altra, alternativamente, a gran velocità, grazie a un otturatore. Se le due lastre sono identiche, questa manovra con l'otturatore non rivelerà niente, ma se uno dei punti sulla seconda lastra ha una posizione anche poco diversa da quella che occupava sulla prima, richiamerà l'attenzione su di sé dando l'impressione di saltare avanti e indietro ad ogni scatto dell'otturatore.

Roger, dunque, azionò l'otturatore, e uno dei punti diede un balzo. Anche Roger diede un balzo. Provò di nuovo, dimenticandosi del tutto per il momento — come anche noi — di Elsie, e il punto fece un altro balzo. Balzò di quasi un decimo di secondo d'arco.

Roger si raddrizzò e si grattò la testa. Accese una sigaretta, la mise giù nel portacenere, e guardò di nuovo nell'oculare. Il punto tornò a balzare avanti e indietro, quando azionò l'otturatore.

Harry Wasson, che faceva il turno serale, era appena entrato nello studio e stava appendendo il soprabito.

«Ehi, Harry!» esclamò Roger. «C'è qualcosa che non va con questo acchiappafarfalle».

«Sì?» fece Harry.

«Sì. Polluce si è spostata d'un decimo di secondo».

«Sì», annuì Harry. «È giusto l'effetto di parallasse. Trentadue anni-luce — la parallasse di Polluce è giusto zero virgola uno zero uno. Poco più di un decimo di secondo. Così, se la tua lastra di paragone è stata presa all'incirca sei mesi fa, quando la Terra era sul lato opposto dell'orbita, è press'a poco giusto».

«Ma, Harry, la lastra di paragone è stata presa l'altra sera. Le due lastre sono separate soltanto da ventiquattr'ore».

«Sei matto».

«Guarda tu stesso».

Non erano ancora le cinque di sera, ma Harry Wasson passò sopra, magnanimo, alla piccola questione di principio e si sedette davanti al microcomparatore. Manipolò l'otturatore, e Polluce compiacente fece il balzo.

Non c'era alcun dubbio che si trattasse di Polluce, poiché era di gran lunga il punto più luminoso sulla lastra. Polluce è una stella di magnitudo 1,2, una delle stelle più luminose del cielo, e senz'altro la più brillante dei Gemelli. E nessuna delle stelle più deboli intorno ad essa si era minima mente mossa.

«Uhm», disse Harry Wasson. Si accigliò, e tornò a guardare. «Una di queste due lastre ha la data sbagliata, ecco tutto... Controllerò subito, per prima cosa».

«Queste lastre non hanno la data sbagliata», ribatté, cocciuto, Roger. «Le ho datate io stesso».

«Questa è la miglior prova», gli disse Harry. «Vai a casa. Sono le cinque. Se Polluce si è spostata di un decimò di secondo da ieri sera, io la rimetterò al suo posto per te».

Così, Roger se ne andò.

Per qualche ragione si sentiva a disagio, come se non avesse dovuto farlo. Qualcosa l'inquietava, anche se non riusciva a inquadrare il problema... Decise di tornare a casa a piedi, invece di prendere l'autobus.

Polluce era una stella fissa, non poteva essersi spostata d'un decimo di secondo in ventiquattro ore.

«Vediamo... trentadue anni-luce», disse Roger tra sé. «Un decimo di secondo d'arco... Diamine, sarebbe un movimento di parecchie volte più veloce della luce. Il che é, senza alcun dubbio, una sciocchezza!»

Ma lo era davvero?

Stasera non se la sentiva di studiare o di leggere. Ma bastavano tre dollari per portar fuori Elsie?

Le tre palle d'un negozio di pegni si stagliavano davanti a lui, e Roger cedette alla tentazione. Impegnò l'orologio, poi telefonò a Elsie. Cena e spettacolo?

«Ma si, certo, Roger».

Così, fino a quando non la riaccompagnò a casa, all'una e trenta, riuscì a dimenticarsi dell'astronomia. Niente di strano in ciò. Sarebbe stato assai strano se fosse riuscito a ricordarsela.

Ma l'inquietudine che l'aveva agitato qualche ora prima, subito tornò a invaderlo non appena restò solo. Sulle prime, non ricordò il perché. Sapeva che proprio non se la sentiva di tornarsene a casa, non ancora.

Il bar all'angolo era ancora aperto, così entrò a bere qualcosa. Si stava scolando il secondo bicchiere, quando ricordò. Ne ordinò un terzo.

«Hank», disse, rivolto al barman. «Conosci Polluce?»

«Polluce chi?» chiese Hank.

«Lascia perdere», disse Roger. Bevve un altro bicchiere e riprese a scervellarsi. Sì, aveva commesso un errore da qualche parte. Polluce non poteva essersi mossa.

Uscì dal bar e s'incamminò verso casa. C'era quasi arrivato quando gli venne in mente di alzare gli occhi su Polluce, non che ad occhio nudo sarebbe riuscito a cogliere uno spostamento d'un decimo di secondo, ma era curioso.

Alzò lo sguardo, si orientò col Leone, poi trovò i Gemelli — Castore e Polluce erano le uniche stelle visibili, dei Gemelli, poiché non era una notte particolarmente favorevole per osservare il cielo. Erano lassù, non c'era dubbio, ma gli sembrò che fossero un po' più staccate del solito. Assurdo, perché sarebbe stato uno spostamento di gradi, non di minuti o di secondi.

Le fissò per parecchi istanti, poi si voltò e fissò l'Orsa Maggiore sul lato opposto. Smise di camminare e si arrestò. Chiuse gli occhi e li riaprì lentamente, con cautela. L'Orsa non gli appariva affatto giusta. Era storta. Pareva che ci fosse più spazio fra Alioth e Mizar, nel timone del carro, che fra Mizar e Alkaid. Phecda e Merak, in fondo all'Orsa, erano molto più vicine, rendendo più acuto l'angolo tra il fondo e il labbro. Assai più acuto.

Incredulo, tracciò una linea immaginaria dalle indicatrici, Merak e Dubhè, fino alla Polare. La linea s'incurvava. Doveva incurvarsi: se fosse andata dritta, avrebbe mancato la Polare di quattro o cinque gradi addirittura.

Il respiro un po' affannoso, Roger si tolse gli occhiali e li ripulì con molta cura col fazzoletto. Se li reinfilò sul naso, ma l'Orsa era sempre storta.

E anche il Leone, quando tornò a guardarlo. Regolo, in particolare, distava d'un grado o due dalla sua normale posizione.

Un grado o due! E alla distanza di Regolo! Non erano sessantacinque anni-luce o giù di li?

Poi, appena in tempo per salvare la sua salute mentale, si ricordò che aveva bevuto. Tornò a casa senza più azzardare una sola occhiata in alto. Andò a letto, ma non riuscì a dormire.

Non si sentiva sbronzo. Era sempre più eccitato, e del tutto sveglio.

Si chiese se avrebbe osato telefonare all'osservatorio. Sarebbe parso ubriaco al telefono? Mandando al diavolo ciò che sarebbe sembrato, alla fine decise. Andò al telefono in pigiama.

«Mi spiace», disse la centralinista.

«Cosa intende dire... mi spiace?»

«Non posso darle quel numero», spiegò la centralinista, con voce melodiosa. «Mi spiace proprio. Non...»

Si fece passare la capo-centralinista. L'Osservatorio Cole era stato talmente inondato di chiamate da parte di astronomi dilettanti, che aveva trovato necessario chiedere alla compagnia telefonica di bloccare tutte le telefonate in arrivo, salvo quelle interurbane o intercontinentali provenienti da altri osservatori.

«Grazie», disse Roger. «Vuol chiamarmi un tassì?»

Era una richiesta insolita, ma la capo-centralinista gli fece il favore e glielo chiamò.

Trovò l'Osservatorio Cole praticamente ridotto a un manicomio.

La mattina dopo, la maggior parte dei giornali riportava la notizia. Per lo più, le dedicavano quattro o cinque righe in una pagina interna. Comunque, la notizia c'era.

Un certo numero di stelle, diceva la notizia, per lo più quelle più luminose, nel corso delle ultime quarantott'ore avevano sviluppato dei movimenti propri percepibili a occhio nudo.

«Questo non significa», diceva il New York Spotlight,in un pietoso tentativo di far dello spirito, «che i loro movimenti siano stati in qualche modo impropri, in passato. Per un astronomo, "movimento proprio" significa il moto di una stella attraverso la sfera celeste, relativo ad altre stelle. Fino ad oggi, la "stella di Barnard", nella costellazione di Ofiuco, ha mostrato un moto proprio più grande di qualunque altra stella conosciuta, spostandosi alla velocità di dieci secondi e un quarto all'anno. La "stella di Barnard" non è visibile a occhio nudo».

È probabile che la notte successiva nessun astronomo in tutta la Terra abbia dormito. Gli osservatori sprangarono le porte, con dentro il personale al gran completo, senza far entrare nessun altro, salvo qualche occasionale cronista che, dopo essere rimasto un po', se ne andava via, il volto perplesso, finalmente convinto che stesse accadendo davvero qualcosa di strano.

Gli «acchiappafarfalle» sfarfalleggiavano, e gli astronomi ammiccavano. Furono consumati ettolitri di caffé. Le squadre antidimostranti della polizia furono chiamate d'urgenza da sei osservatori degli Stati Uniti. Due di queste chiamate furono provocate da tentativi d'irruzione da parte di dilettanti e pazzoidi. Le altre quattro da scazzottate accesesi, dopo violente discussioni, tra il personale stesso degli osservatori. Uffici e laboratori dell'osservatorio di Lick furono devastati, e James Truwell, astronomo reale, fu ricoverato al London Hospital con una lieve commozione cerebrale, dopo che una massiccia lastra fotografica gli era stata spaccata in testa da un dipendente infuriato.

Ma questi incidenti furono eccezioni. In generale gli osservatori erano manicomi bene ordinati.

Il centro dell'attenzione, nei più intraprendenti, era l'altoparlante, attraverso il quale si apprendevano le notizie che provenivano continuamente dall'emisfero orientale. Praticamente tutti gli osservatori tenevano continui contatti telefonici col lato notturno della Terra, dove i fenomeni astronomici continuavano ad esser tenuti sotto osservazione.

In pratica, gli astronomi sotto i cieli notturni di Singapore, Shangai e Sidney snocciolavano i dati delle loro osservazioni direttamente agli apparecchi telefonici posti all'estremità di linee lunghe mezzo pianeta o più.

Di particolare interesse erano i rapporti provenienti da Sidney e Melbourne, che descrivevano i cieli del sud, non visibili — neppure di notte — dall'Europa o dagli Stati Uniti. In base a quei rapporti, la Croce del Sud non era più una croce, con le due stelle più brillanti spostate verso nord. Alfa e Beta Centauri, Canopo e Achernar mostravano anch'esse dei considerevoli moti propri — tutte, in generale, verso nord. Il Triangolo Australe e le Nubi di Magellano erano rimasti inalterati. Sigma Octanis, la debole stella polare meridionale, non si era minimamente mossa.

Quindi le perturbazioni del cielo meridionale erano assai inferiori di quelle del cielo settentrionale, come numero di stelle spostate. Tuttavia, i moti propri relativi delle stelle perturbate erano assai maggiori. E anche se la direzione generale delle poche stelle che si muovevano era il nord, le loro traiettorie non puntavano direttamente a nord, né convergevano tutte verso un unico punto dello spazio.

Gli astronomi degli Stati Uniti e dell'Europa digerirono questi fatti e bevettero dell'altro caffé.

I giornali della sera, in particolare in America, mostrarono di essersi finalmente accorti che qualcosa d'insolito e sconvolgente stava accadendo nei cieli. La maggior parte di essi spostarono il servizio in prima pagina — ma non ancora fra i titoli di testa — dandogli mezza colonna di testo, e magari anche un "continua in... pagina", la cui lunghezza dipendeva dal fatto che il direttore avesse avuto oppure no la fortuna di strappare una qualche dichiarazione a un astronomo.

E le dichiarazioni, quand'erano ottenute, si limitavano a esporre i fatti, ma non le opinioni. Già i fatti in sé, dicevano quei signori, erano abbastanza sorprendenti, ed esprimere opinioni sarebbe stato prematuro. Aspettate e vedrete. Qualunque cosa stia accadendo, accade in fretta.

«Quanto in fretta?» chiese un direttore.

«Più in fretta di quanto sia possibile», fu la risposta.

Ma forse non è del tutto esatto dire che nessun direttore riuscì a ottenere delle opinioni così presto. Charles Wagren, l'intraprendente direttore del Chicago Blade,spese una piccola fortuna in telefonate interurbane e intercontinentali. Su una sessantina di tentativi, alla fine riuscì a raggiungere i direttori di cinque osservatori. E fece a tutti la stessa domanda:

«Qual è la sua opinione sulla possibile causa, qualunque essa sia, dei vistosi spostamenti esibiti dalle stelle in queste due ultime notti?»

Trascrisse le risposte una sotto l'altra:

«Vorrei tanto saperlo». Geo F. Stubbs, Osservatorio Tripp, Long Island.

«Qualcuno o qualcosa è impazzito, e spero di non essere io... io in persona». Henry Collister McAdams, Osservatorio Lloyd, Boston.

«Ciò che sta accadendo è impossibile. Non può esserci nessuna causa». Letton Tischauer Tinney, Osservatorio Burgoyne, Albuquerque.

«Sto cercando un esperto in astrologia. Ne conosce qualcuno?» Patrick R. Whitaker, Osservatorio Lucas, Vermont.

«Follie!» Giles Mathew Frazier, Osservatorio Grant, Richmond.

Studiando con aria afflitta quest'elenco, che gli era costato 187,35 dollari, tasse comprese, il direttore Wangren firmò il modulo giustificativo della spesa, poi lasciò cadere l'elenco nel cestino della carta straccia. Telefonò all'esperto scientifico che lavorava per il giornale come collaboratore esterno.

«Puoi farmi una serie di articoli — due-tremila parole l'uno — su tutta questa confusione astronomica?»

«Certo», gli rispose il pubblicista. «Ma quale confusione?» Risultò che era appena tornato da una partita di pesca e non aveva letto i giornali né gli era mai capitato di alzare io sguardo al cielo. Ma scrisse gli articoli. Ci mise perfino del sex-appeal, illustrando gli articoli con antiche carte stellari che mostravano le costellazioni in deshabillé, riproducendo certi famosi dipinti quali «L'Origine della Via Lattea» e utilizzando altresì la fotografia di una ragazza, in costume da bagno che puntava un telescopio portatile in direzione di una delle stelle erranti, o così almeno si poteva presumere. La tiratura del Chicago Blade aumentò del 21,7 per cento.

Erano di nuovo le cinque in quello studio dell'Osservatorio Cole, giusto ventiquattr'ore e un quarto dopo l'inizio di tutta quell'agitazione. Roger Phlutter — sì, siamo tornati da lui — si svegliò di colpo quando una mano gli si appoggiò sulla spalla.

«Vai a casa, Roger», gli disse Mervin Ambruster, il suo capo, con voce gentile.

Roger si rizzò di scatto a sedere.

«Signor Ambruster», esclamò, «mi spiace essermi addomentato».

«Sciocchezze», disse Ambruster. «Non puoi restare qui per sempre, nessuno di noi può farlo. Vai a casa».

Roger Phlutter andò a casa. Ma quand'ebbe fatto un bagno, si sentì molto più inquieto che assonnato. Erano soltanto le sei e un quarto. Telefonò a Elsie.

«Mi spiace tanto, Roger, ma ho un altro appuntamento. Cosa sta succedendo, Roger? Voglio dire, con le stelle?»

«Oh, Elsie. si stanno muovendo... e nessuno sa perché».

«Ma io pensavo che tutte le stelle si stessero muovendo», protestò Elsie. «Il Sole è una stella, non è vero? Una volta mi hai detto che il Sole si sta muovendo verso un punto in Sansone».

«Ercole».

«D'accordo, Ercole. E visto che, come mi hai detto, tutte le stelle si muovono, perché mai la gente si eccita tanto?»

«Questa è una cosa diversa», replicò Roger. «Prendi Canopo, ad esempio. Ha cominciato a muoversi alla velocita di sette anni-luce al giorno. Non può farlo!»

«Perché no?»

«Perché», le spiegò, paziente, Roger, «niente può muoversi più veloce della luce».

«Ma se si muove così in fretta, allora vuol dire che può», obbiettó Elsie. «Oppure è il tuo telescopio che non funziona, o qualcosa del genere. Ad ogni modo, è molto lontana, non è vero?»

«Centosessanta anni-luce. Così lontana che la vediamo com'era centosessanta anni fa».

«Allora può darsi che non si stia muovendo affatto», disse Elsie. «Voglio dire, forse ha smesso di muoversi centocinquant'anni fa, e voi vi state eccitando per qualcosa che non ha più importanza perché è già finito. Mi ami sempre?»

«Certo, tesoro. Non puoi mollare quell'appuntamento?»

«Temo di no, Roger. Ma vorrei tanto poterlo fare».

Doveva accontentarsi di questo. Decise di andare in centro a mangiare.

Erano le prime ore della sera, troppo presto per vedere le stelle, anche se il limpido cielo azzurro aveva incominciato a imbrunire. Roger sapeva che, quando le stelle fossero comparse quella sera, poche costellazioni sarebbero state ancora riconoscibili.

Mentre camminava, ripensò ai commenti di Elsie e decise che erano intelligenti almeno quanto tutti quelli che aveva ascoltato all'Osservatorio Cole. In un certo senso, Elsie aveva presentato il problema da un'angolatura alla quale lui non aveva pensato prima, e ciò rendeva la cosa ancora più incomprensibile.

Tutti quei movimenti dovevano essere incominciati la stessa notte... eppure non era così.

Il Centauro doveva aver cominciato a muoversi all'incirca quattro anni prima, e Rigel cinquecentoquaranta anni prima, quando Cristoforo Colombo portava ancora i calzoncini corti, sempre che a quell'epoca si usassero, e Vega doveva aver cominciato a muoversi in quel modo nell'anno in cui lui, Roger, non Vega, era nato, ventisei anni prima. Ogni stella, di quelle centinaia, doveva aver cominciato a muoversi a un dato istante, in esatta dipendenza dalla sua distanza dalla Terra. Una dipendenza esatta al secondo-luce, poiché il controllo di tutte le lastre fotografiche prese la penultima notte indicavano che tutti i movimenti stellari avevano avuto inizio alle 4 e 10 antimeridiane, ora di Greenwich. Che pasticcio!

A meno che tutto ciò non significasse che, dopotutto, la luce aveva una velocità infinita.

E se non l'aveva — ed è sintomatico della perplessità di Roger il fatto che avesse postulato quell'incredibile «se» — allora... allora cosa? Tutto restava sconcertante come, o peggio, di prima.

Soprattutto, si sentiva offeso che potessero accadere cose come quelle.

Entrò in un ristorante e si sedette. Una radio stava urlando l'ultima composizione disaritmica, la nuova musica da ballo in quarti di tono, un sottofondo di strumenti a corda e a fiato per una folle melodia battuta su tam-tam di varie dimensioni. Fra un numero e l'altro, un esagitato speaker vantava le qualità di questo o quel prodotto.

Masticando un sandwich, Roger si godette il disaritmo, cercando di ignorare la pubblicità. La maggior parte delle persone intelligenti degli anni Ottanta avevano sviluppato un'efficace sordità radiofonica che consentiva loro di non udire la voce umana che usciva dagli altoparlanti, pur continuando a udire e a godersi gli allora infrequenti interludi musicali, fra un annuncio e l'altro. In un'epoca in cui la concorrenza pubblicitaria era così acuta, non c'era in pratica un solo muro vuoto o un appezzamento di terreno senza manifesti o cartelloni pubblicitari, per un raggio di molte miglia intorno a un qualunque centro abitato. Per questo, la gente con un briciolo di criterio poteva conservare una normale prospettiva di vita solo se coltivava con molta cura una parziale cecità e sordità che consentiva loro d'ignorare la continua, massiccia aggressione portata ai loro sensi.

Per questo motivo, buona parte del notiziario che seguì il programma di musica disaritmica entrò in un orecchio di Roger e uscì dall'altro, come si dice, prima che si rendesse conto che non stava ascoltando uno sbrodoso panegirico di qualche alimento per la prima colazione.

Gli parve di riconoscere la voce, e dopo un attimo o due fu certo che si trattava di Milton Hale, l'eminente fisico, la cui nuova teoria sul principio d'indeterminazione aveva negli ultimi tempi sollevato tante controversie nel mondo scientifico. A quanto pareva, il professor Hale veniva intervistato da un radiocronista.

«... perciò un corpo celeste può avere una posizione o una velocità, ma non si può dire che le abbia ambedue contemporaneamente, in relazione a una data struttura spaziotemporale».

«Dottor Hale, può ripeterlo in un linguaggio un po' meno... In un linguaggio comune, insomma?» disse la voce sciropposa dell'intervistatore.

«Questo è linguaggio comune, signore. Espresso in termini scientifici, secondo il principio di contrazione di Heisenberg, n elevato alla settimana, tra parentesi, rappresenta la pseudo-posizione d'un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente della curvatura di massa...»

«Grazie, dottor Hale, ma temo che lei sia un po' al di sopra dei cervelli dei nostri ascoltatori...»

«E del tuo», pensò Roger Phlutter.

«Sono certo, professor Hale, che la domanda che più interessa i nostri ascoltatori sia questa: tali movimenti stellari, finora senza precedenti, sono reali o illusori?»

«Entrambe le cose. Sono reali in rapporto alla struttura spaziale, ma non in rapporto alla struttura dello spazio-tempo».

«Potrebbe chiarire la cosa, professore?»

«Credo di si. La difficoltà è puramente epistemologica. In stretta casualità, l'impatto d'una macroscopica...»

«"The slithy tove did gyre and gimble in the wabe"», pensò Roger Phlutter (1).

«... sul parallelismo del gradiente entropico».

«Bah!» esclamò Roger, a voce alta.

«Ha detto qualcosa, signore?» chiese la cameriera. Roger l'osservò per la prima volta. Era piccola, bionda e rotondetta. Roger le sorrise.

«Dipende dalla struttura spaziotemporale in base alla quale si considera la cosa», dichiarò, in tono grave. «La difficoltà è puramente epistemologica».

Per compensarla, diede alla cameriera una mancia superiore al dovuto, e se ne andò.

Si rese conto che il fisico più eminente che c'era al mondo ne sapeva, di ciò che stava accadendo, ancora meno della gente della strada. La gente sapeva che le stelle fisse si muovevano, o non si muovevano. Era ovvio che il professor Hate non sapeva neppure questo. Sotto una cortina fumogena di definizioni concettose, Hale aveva lasciato intendere che le stelle facevano, invece, tutte e due le cose.

Roger alzò gli occhi al cielo, ma solo poche stelle, fioche nella luce del primo crepuscolo, erano visibili attraverso l'alone creato dalla miriade di insegne al neon e di finestre illuminate. Decise che era ancora troppo presto.

Si fece un drink in un bar vicino, ma non gli parve che avesse il giusto sapore, per cui non lo finì. Non avrebbe saputo dire cosa c'era che non andava, ma era stordito dalla mancanza di sonno. Ma era troppo nervoso ed eccitato per aver voglia di andare a dormire, perciò decise di continuare a camminare finché le gambe non gli fossero letteralmente piegate per la stanchezza. Chiunque l'avesse colpito in testa con uno sfollagente gli avrebbe reso un segnalato servizio, ma nessuno se ne prese la briga.

Roger continuò a camminare, e dopo un po' s'infilò nell'atrio d'uno sfarzoso cinematografo, vividamente illuminato, e si sedette appena in tempo per vedere le sequenze finali dell'ultimo dei tre lungometraggi in programma. Seguirono parecchi annunci pubblicitari che riuscì a guardare senza vederli.

«Ora», disse una voce dallo schermo, «vi presentiamo una speciale trasmissione via cavo, in diretta, del cielo di Londra, dove adesso sono le tre di notte».

Lo schermo si oscurò e vi comparve una miriade di puntolini che erano le stelle. Roger si sporse in avanti per guardare e ascoltare attentamente. Quella si annunciava come una trasmissione di fatti concreti, non di vuote e pompose parole.

«La freccia», disse lo schermo, quando una freccia comparve su di esso, «sta indicando la Stella Polare... la quale, adesso, si trova a dieci gradi di distanza dal polo celeste, in direzione dell'Orsa Maggiore. La stessa Orsa Maggiore, il Gran Carro, non è più riconoscibile come un carro, ma adesso la freccia indicherà le stelle che prima lo formavano».

Roger seguì senza fiato la freccia e la voce.

«Alkaid e Dubhè», spiegò la voce. «Le stelle fisse non sono più fisse, ma...» L'immagine cambiò all'improvviso mostrando l'interno d'una cucina moderna, «... la qualità e l'eccellenza dei Forni Stella non cambia. I cibi cucinati col sistema dell'induzione supervibratoria hanno come sempre un eccellente sapore. I Forni Stella sono insuperati».

Con calma, Roger Phlutter si alzò, raggiunse la corsia, e s'incamminò verso lo schermo tirando fuori di tasca il temperino. Saltò agilmente sul basso palcoscenico. I colpi coi quali squarciò lo schermo non furono rabbiosi, bensì attenti e metodici, concepiti per fare il massimo danno col minimo sforzo. Quando due robusti usceri l'afferrarono, il danno era già fatto, e completo. Non fece nessuna resistenza né a loro, né alla polizia alla quale lo consegnarono. Un'ora più tardi, al tribunale notturno, ascoltò senza scomporsi le accuse contro di lui.

«Colpevole o non colpevole?» chiese il magistrato che presiedeva la corte.

«Vostro Onore, questa è una pura questione di epistemologia», rispose Roger, in tutta serietà. «Le stelle fisse si muovono, ma Fiocchini Tostati, la miglior prima colazione del mondo, rappresenta ancora la pseudo-posizione d'un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente di curvatura!»

Dieci minuti più tardi dormiva come un ghiro. In una cella, è vero, ma pur sempre come un ghiro. La polizia lo lasciò li, poiché si erano resi conto che aveva bisogno di dormire...

Fra le altre tragedie di minor portata di quella notte, si può menzionare il caso dello schooner Ransagansett,al largo della costa californiana. Molto al largo della costa californiana! Un'improvvisa burrasca l'aveva spinto molte miglia fuori rotta, ma quante miglia fossero il comandante poteva soltanto indovinarlo.

Il Ransagansett era un vascello americano con un equipaggio tedesco, battente bandiera venezuelana, affittato per trasportare alcoolici da Ensenada, nella Bassa California, fin su alla costa canadese, naturalmente di contrabbando. Il Ransagansett era un vecchio vascello, con quattro motori e una bussola assai poco affidabile. Durante i due giorni di tempesta, il suo apparato radio — anno 1955 — era impazzito e Gross, il secondo, malgrado le sue indubbie capacità, non era stato in grado di ripararlo.

Ma adesso, a ricordare la tempesta era rimasta soltanto una leggera foschia che le ultime raffiche di vento stavano portando via. Hans Gross, impugnando un antico astrolabio, se ne stava in attesa sul ponte. Intorno a lui c'era la più totale oscurità, poiché la nave procedeva senza luci per evitare le pattuglie costiere.

«Si sta schiarendo, signor Gross?» chiamò il capitano da sotto.

«Zi, zignore. Zi sda sghiarendo in fredda».

Nella cabina, il capitano Randall tornò alla sua partita di blackjack col terzo ufficiale e l'addetto alle macchine. L'equipaggio — un vecchio tedesco chiamato Weiss, con una gamba di legno — era addormentato a poppa del serbatoio dell'acqua, dovunque questo si trovasse.

Passò una mezz'ora. Un'ora. Il capitano stava perdendo forte con Helmstadt, l'addetto alle macchine.

«Signor Gross!» chiamò.

Non vi fu nessuna risposta. Il capitano chiamò di nuovo, e di nuovo, e continuò a non ottenere risposta.

«Solo un attimo, miei cari amici», disse al terzo ufficiale e al macchinista, e salì la scaletta del boccaporto fino al ponte.

Gross era là in piedi, immobile, gli occhi al cielo e la bocca spalancata. La foschia era del tutto scomparsa.

«Signor Gross», ripeté il capitano Randall.

Il primo ufficiale non rispose. Davanti agli occhi del capitano, si limitò a ruotare lentamente sui tacchi, prima a destra e poi a sinistra.

«Hans!» latrò il capitano Randall. «Cosa diavolo le sta succedendo?» Poi anche lui alzò lo sguardo.

A prima vista, il cielo appariva del tutto normale. Niente angeli in volo, né il ronzio dei motori di un aereo. Il Carro, si disse il capitano, girando lentamente su se stesso, proprio come Gross, dov'era il Gran Carro?

Ma d'altra parte, dov'era anche tutto il resto? Non gli riuscì di riconoscere una sola costellazione, pur voltandosi da ogni lato. Niente falce del Leone. Niente cintura di Orione. Niente corona del Toro.

Cosa anche peggiore, c'era un gruppo di otto stelle luminosissime che potevano anche essere una costellazione, poiché erano disposte, grosso modo, a formare un ottagono. Soltanto che... una simile costellazione non era mai esistita, lo sapeva poiché aveva viaggiato anche intorno al Capo di Buona Speranza e al Capo Horn. Forse... ma no! Non c'era nessuna Croce del Sud! Stordito, il capitano Randall tornò ad avvicinarsi alla scaletta del boccaporto.

«Signor Weisskopf», chiamò. «Signor Halmstadt. Venite sul ponte».

Salirono e guardarono. Nessuno disse niente per un po'.

«Spenga i motori, signor Halmstadt», disse il capitano. Halmstadt fece il saluto — prima non l'aveva mai fatto — e scese di sotto.

«Kapitano, defo sfegliare Weiss?» chiese Weisskopf.

«Per cosa?»

«Non so».

Il capitano rifletté. «Lo svegli», disse poi.

«Gredo ghe ziamo sul pianeda Marde», disse Gross.

Il capitano ci aveva pensato, ma aveva respinto l'idea.

«No», replicò con fermezza. «Da qualunque pianeta del sistema solare le costellazioni avrebbero più o meno lo stesso aspetto».

«Fuol dire che ziamo fuori del cozmo?»

Il fremito dei motori cessò all'improvviso e vi fu soltanto il familiare sciabordio delle onde contro lo scafo, e il pigro dondolio della nave.

Weisskopf tornò su con Weiss, anche Halmstadt risalì sul ponte e rifece il saluto al capitano.

«Dunqwe, kapitano?»

Il capitano fece un gesto verso il ponte di poppa, dov'erano ammucchiate le casse di alcoolici, sotto dei teli catramati. «Liquidate il carico», ordinò.

La partita di blackjack non fu più ripresa. All'alba, sotto un sole che non si erano aspettati di rivedere mai più — e se è per questo, neanche in quel momento lo vedevano — i cinque uomini, privi di sensi, furono trasferiti dalla nave alla prigione del porto di San Francisco, da membri perplessi della guardia costiera. Durante la notte, la Ransagansett era andata alla deriva di traverso al Golden Gate, andando a urtare di striscio contro la banchina del ferry-boat per Berkeley.

Un gran telo catramato era a rimorchio a poppa dello schooner, trafitto da un arpione la cui corda era assicurata all'albero di poppa. La sua presenza, là dietro, non ebbe mai una spiegazione ufficiale, anche se al capitano Randall parve vagamente di ricordare, alcuni giorni dopo, di aver arpionato un capodoglio durante la notte. A sua volta, il vecchio ed esperto marinaio Weiss non riuscì mai a scoprire cos'era successo alla sua gamba di legno, il che, forse, era ancora peggio.

 

Milton Hale, fisico emerito, aveva concluso l'intervista, e si stava congedando.

«Grazie molte, professor Hale», gli disse l'intervistatore. Una luce gialla si era accesa, indicando che il microfono era spento. «E... si, troverà il suo assegno giù, alla cassa. Lei... uh... sa dove».

«So dove», annuì il fisico. Era un ometto rotondo, dall'aria gioviale. Con la sua barbetta cespugliosa, sembrava un'edizione tascabile di Babbo Natale. Gli occhi gli luccicavano e fumava una pipa corta e mozza.

Lasciò lo studio insonorizzato, e con passo spigliato proseguì fino allo sportello della cassiera. «Ciao, dolcezza», disse all'impiegata in servizio. «Dovrebbero esserci due assegni per il professor Hale».

«Lei è il professor Hale?»

«A volte me lo chiedo», disse l'ometto. «Ma ho qui dei documenti che sembrano dimostrarlo».

«Due assegni?»

«Due assegni. Tutti e due per la stessa trasmissione, per uno speciale accordo. A proposito, questa sera danno un'ottima rivista al teatro Mabry».

«Davvero? Sì, ecco i suoi due assegni, professor Hale. Uno per settantacinque dollari e uno per venticinque. È giusto?»

«Piacevolmente giusto. Adesso, che ne dice della rivista al Mabry?»

«Se vuole, chiamo mio marito e glielo chiedo», disse la ragazza. «È il portiere, laggiù».

Il professor Hale esalò un profondo sospiro, ma i suoi occhi vispi continuarono a brillare. «Credo che sarà senz'altro d'accordo», dichiarò. «Eccole i biglietti, cara. Ci vada con lui. Mi sono ricordato di avere del lavoro importante, stasera.

La ragazza sgranò gli occhi, ma prese i biglietti.

Il professor Hale entrò nella più vicina cabina telefonica e chiamò la sua sorella maggiore. «Agatha, devo restare in ufficio stasera», le disse.

«Milton, lo sai che puoi lavorare altrettanto bene nel tuo studio qui a casa. Ho sentito la tua trasmissione, Milton. È stata meravigliosa».

«Erano pure sciocchezze, Agatha. Completa spazzatura. Cosa ho detto?»

«Diamine, hai detto che... sì... che le stelle sono... voglio dire, che tu non...»

«Proprio così, Agatha. La mia intenzione era quella d'impedire che il panico si diffondesse tra il popolino. Se gli avessi detto la verità, si sarebbero tutti spaventati. Ma mostrandomi pomposo e molto scientifico, gli ho lasciato credere che tutto fosse... uh... sotto controllo. Sai, Agatha, cosa vuol dire parallelismo di gradiente entropico?»

«Be'... non esattamente».

«Neppure io».

«Milton, hai bevuto?»

«Non... No, non ho bevuto. Ma, Agatha, non posso proprio venire a lavorare a casa stasera. Userò il mio studio all'università, perché devo consultare parecchi testi che sono là. E anche le carte stellari».

«Ma, Milton, quei soldi che hai ricevuto per la tua trasmissione? Sai che non è prudente che tu vada in giro con dei soldi in tasca, quando ti senti... così».

«Non è contante, Agatha. È un assegno, e te lo spedirò per posta prima di andare all'università. Non lo incasserò lo stesso. Che ne dici?»

«Be'... se devi consultare la biblioteca, suppongo che tu debba farlo. Arrivederci, Milton».

Il professor Hale attraversò la strada fino al più vicino emporio. Qui acquistò un francobollo e una busta, e incassò l'assegno da venticinque dollari. Poi infilò l'assegno da settantacinque dollari nella busta, la chiuse e la spedi.

Quando fu accanto alla cassetta delle lettere, alzò lo sguardo al cielo della prima sera... rabbrividì e abbassò in fretta gli occhi. Prese la strada per il bar più vicino e ordinò un doppio scotch.

«È un bel po' che non la si vede, professor Hale», gli disse Mike, il barman.

«Infatti, Mike. Versamene un altro».

«Certo. Offre la casa, stavolta. Eravamo sintonizzati sulla sua trasmissione proprio un momento fa. È stata splendida».

«Sì».

«Proprio così. Ero un po' preoccupato per ciò che sta succedendo là in alto, con mio figlio aviatore e tutto il resto. Ma fintanto che voi gente di scienza sapete di che cosa si tratta, immagino che tutto sia a posto. È stato proprio un bel discorso, professore. Ma c'è una domanda che vorrei farle».

«Lo temevo», disse il professor Hale.

«Queste stelle... Si muovono, vanno da qualche parte. Ma dove? Voglio dire, come ha detto lei, se si muovono...»

«Non c'è modo di saperlo con esattezza, Mike».

«Non si muovono tutte in linea retta?»

L'illustre scienziato ebbe un impercettibile istante di esitazione.

«Be'... si e no, Mike. Stando alle analisi spettroscopiche, esse mantengono la stessa distanza da noi, tutte. Perciò si muovono... se si muovono... in cerchio intorno a noi. Ma questi cerchi ci appaiono tutti dritti, in prospettiva. Voglio dire, sembra che noi siamo nel centro esatto di tutti questi cerchi, perciò le stelle che si muovono non si avvicinano né si allontanano dalla Terra».

«Si potrebbero disegnare quelle linee... cioè quei cerchi?»

«Su un mappamondo celeste, si. Lo si sta già facendo. Sembrano dirigersi tutte verso una certa zona del cielo, ma non verso un unico punto. In altre parole, le loro traiettorie non si intersecano».

«Verso quale zona del cielo stanno andando?»

«All'incirca fra l'Orsa Maggiore e il Leone, Mike. Quelle più lontane da quella zona si muovono più in fretta, quelle più vicine con più lentezza. Ma. dannazione, Mike, sono venuto qui per dimenticare le stelle, non per parlarne. Dammene un altro».

«Tra un attimo, professore. E una volta arrivate là, si fermeranno oppure continueranno a muoversi?»

«Come diavolo faccio a saperlo, Mike? Se si sono messe in movimento tutte al medesimo istante, e tutte già in piena velocità... voglio dire, se sono partite con la stessa velocità che hanno adesso, senza accelerare strada facendo... suppongo che allo stesso modo potrebbero fermarsi tutte nel medesimo istante, senza preavviso».

Si arrestò all'improvviso, allo stesso modo in cui avrebbero potuto fare le stelle. Fissò la sua immagine riflessa nello specchio dietro al bar, come se non l'avesse mai vista prima.

«Cosa succede, professore?»

«Mike!»

«Sì, professore?»

«Mike, sei un genio».

«Io? Lei sta scherzando».

Il professor Hale gemette: «Mike, devo andare all'università a studiare la cosa. Per avere accesso alla biblioteca e al mappamondo celeste che vi si trovano. Stai facendo di me un uomo onesto, Mike. Su, impacchettami una bottiglia di questo scotch, di qualunque marca sia».

«È Tartan Plaid. Un quartino?»

«Un quartino. E fai in fretta. Devo vedere un tizio a proposito d'una stella-cane».

«Parla sul serio, professore?»

Il professor Hale emise un fragoroso sospiro. «La colpa è tua, Mike. Sì, la stella-cane... Sirio. Vorrei non essere mai entrato qui, Mike. La mia prima notte fuori casa dopo tanti anni, e tu me la rovini».

Prese un tassì per recarsi all'università, entrò con la sua chiave e accese la luce nel suo studio privato e nella biblioteca. Poi ingollò una robusta sorsata di Tartan Plaid e si tuffò nel lavoro.

Per prima cosa si qualificò con la capo-centralinista, e dopo una breve, energica discussione ottenne un collegamento con l'astronomo capo dell'Osservatorio Cole.

«Sono Hale, Ambruster», disse. «Ho un'idea, ma voglio controllare i miei dati prima di cominciare a lavorarci sopra. Secondo le ultime informazioni che ho ricevuto, c'erano quattrocentosessantotto stelle che mostravano un moto proprio. La cifra è ancora questa?»

«Sì, Milton. Sono all'opera sempre le stesse stelle, non altre».

«Bene. Ho la lista completa, allora. C'è stato qualche cambiamento nella velocità di spostamento di qualcuna di esse?»

«No. Per quanto sembri impossibile, resta costante. Qual'è la sua idea?»

«Prima voglio controllare la mia teoria. Se dovesse funzionare, in un modo o nell'altro, la richiamerò». Ma si dimenticò di farlo.

Fu un lavoro lungo e noioso. Prima di tutto, Hale disegnò una carta stellare dettagliata della zona del cielo fra l'Orsa Maggiore e il Leone. Attraverso quella zona, tracciò 468 linee diritte che rappresentavano la proiezione delle traiettorie di ogni stella aberrante. Ai bordi di quella mappa, nei punti in cui ognuna di quelle traiettorie vi penetrava, annotò la velocità apparente della stella — non in anni-luce all'ora, bensì in gradi all'ora — con l'approssimazione fino al quinto decimale.

Poi fece qualche ragionamento.

«Postulando che il movimento, iniziatosi contemporaneamente per tutte, s'interrompa simultaneamente», si disse, «proviamo a indovinare quale l'istante... Facciamo, ad esempio, le dieci di domani sera».

Ci provò, e fissò il complesso delle estrapolazioni sulla carta. Niente.

Provò allora con l'una del mattino. Sembrò quasi... che avesse senso!

Tornò indietro a mezzanotte.

Funzionava. In ogni caso, c'era vicino, ormai. I calcoli potevano avere discrepanze di qualche minuto, al più, e non valeva la pena, adesso, andare a cercare l'istante esatto. Soprattutto adesso che conosceva quell'incredibile fatto.

Trangugiò un altro drink e fissò la carta con sguardo truce.

Una capatina in biblioteca diede al professor Hale l'ulteriore informazione che gli serviva: l'indirizzo!

Così, ebbe inizio la saga del viaggio del professor Hale. Un viaggio inutile, è vero, ma un viaggio che poteva ben annoverarsi alla pari di quello del dottor Livingstone.

Lo iniziò con un drink. Poi, conoscendo la combinazione, aprì e saccheggiò la cassaforte nell'ufficio del rettore. L'appunto che lasciò nella cassaforte era un capolavoro di concisione. Diceva:

Presi soldi. Spiegherò dopo.

Poi trangugiò un altro sorso e s'infilò la bottiglia in tasca. Uscì e chiamò un tassi.

Ci s'infilò dentro.

«Dove, signore?» chiese il tassista.

Il professor Hale gli diede un indirizzo.

«Fremont Street?» chiese il tassista. «Scusi, signore, ma non so dove si trova».

«A Boston», disse il professor Hale. «Avrei dovuto dirglielo... a Boston».

«Boston? Vuol dire Boston, Massachusetts? È parecchio lontano da qui».

«Perciò, sarà meglio partire subito», disse il professor Hale, a fil di logica. Una breve discussione d'ordine finanziario e il trasferimento d'una consistente porzione del denaro prelevato dalla cassaforte dell'università, ridiedero una completa tranquillità di spirito al tassista. Si misero in viaggio.

Era una notte d'un gelo pungente, per il mese di marzo, e il riscaldamento del tassì non funzionava molto bene. Ma il Tartan Plaid funzionò in modo superlativo sia per il professor Hale che per il tassista, e quando ebbero raggiunto New Haven ambedue cantavano a gran voce le canzoni dei vecchi tempi.

«Via ce ne andiamo, nell'ampia selva al di làaaa...» ruggivano le loro voci.

Si racconta, per quanto, data l'incresciosità della cosa, sia con ogni probabilità un parto della fantasia, che a Hartford il professor Hale si sia rivolto sfrontatamente a una giovane donna in attesa d'un tram notturno, sporgendosi dal finestrino, chiedendole se volesse andare a Boston. Comunque, a quanto pare, la giovane donna non andò a Boston poiché, alle cinque del mattino, quando la macchina si arrestò davanti al 614 di Fremont Street, Boston, soltanto il professor Hale e il tassista si trovavano al suo interno.

Il professor Hale scese dal tassì e guardò la casa. Era la dimora d'un milionario, ed era circondata da un'alta cancellata di ferro con del filo spinato in cima. Il cancello era chiuso a chiave e non c'era nessun campanello visibile.

Ma la casa si trovava a un solo tiro di sasso dal marciapiede e il professor Hale non si lasciò scoraggiare. Tirò un sasso. Poi un altro. Alla fine riuscì a fracassare un vetro.

Dopo un breve intervallo, un uomo comparve alla finestra. Un maggiordomo, decise il professor Hale.

«Sono il dottor Milton Hale», gridò. «Voglio vedere subito Rutherford R. Sniveley. È importante».

«Il signor Sniveley non è in casa, signore», rispose il maggiordomo. «In quanto alla finestra...»

«Al diavolo la finestra?» urlò il professor Hale.

«Dov'è Sniveley?»

«A pescare».

«Dove?»

«Ho ordini precisi di non dare quest'informazione».

Forse il professor Hale era un po' ubriaco. «Me la darà lo stesso», ruggì. «Per ordine del Presidente degli Stati Uniti».

Il maggiordomo scoppiò a ridere: «Non lo vedo proprio».

«Lo vedrà», ribadì Hale.

Tornò al tassi. Il conducente si era addormentato, ma Hale lo svegliò a scossoni.

«La Casa Bianca», gli ordinò il professor Hale.

«Uh?»

«La Casa Bianca, a Washington», ripeté il professor Hale. «E in fretta!» Tirò fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. Il tassista lo fissò e cacciò un gemito. Poi s'infilò la banconota in tasca e mise in moto l'auto.

Cominciava a cadere una spolverata di neve.

Mentre la macchina si allontanava, Rutherford R. Sniveiey, sogghignando, si allontanò dalla finestra. Il signor Sniveiey non aveva mai avuto un maggiordomo.

Se il professor Hale avesse conosciuto il bizzarro carattere dell'eccentrico signor Sniveiey, avrebbe capito subito che Sniveiey non teneva mai servitori durante la notte, ma viveva solo nella grande casa al 641 di Fremont Street. Ogni mattina, alle dieci, un piccolo esercito di servitori invadeva la casa, facevano tutti i lavori il più rapidamente possibile, e se ne andavano tutti prima dell'ora fatidica, mezzogiorno. A parte quelle due ore, ogni giorno, il signor Sniveiey viveva in solitario splendore. Aveva pochissimi contatti sociali, se pur ne aveva.

A parte le poche ore del giorno che passava ad amministrare i suoi vasti interessi (era uno dei più grandi industriali del paese), il tempo del signor Sniveiey apparteneva a lui solo, e lui lo passava praticamente tutto nel suo laboratorio a fabbricare marchingegni.

Sniveiey possedeva, perciò, un portasigari che gli porgeva un sigaro acceso tutte le volte che gliel'ordinava in tono brusco, e un radioricevitore così ben regolato che si accendeva automaticamente sui programmi sponsorizzati da Sniveiey, per spegnersi subito non appena erano finiti. Aveva una vasca da bagno che gli forniva un completo accompagnamento orchestrale quando lui c'era dentro e cantava, e aveva un congegno che gli leggeva ad alta voce qualunque libro posto sul suo leggio.

La vita del signor Sniveiey poteva anche essere solitaria, ma non difettava certo di simili comodità materiali. Eccentrico, si, il signor Sniveiey poteva permettersi di essere eccentrico, con un reddito netto di quattro milioni di dollari l'anno. Niente male per un uomo che aveva iniziato la sua esistenza come figlio d'un comune impiegato d'una compagnia di trasporti marittimi.

Il signor Sniveiey ridacchiò, mentre guardava il tassì che si allontanava, e poi tornò a letto, per il sonno dei giusti.

«Così, qualcuno c'è arrivato con diciannove ore di anticipo», pensò. «Be', gli servirà davvero tanto!»

Non c'era nessuna legge che potesse punirlo per ciò che aveva fatto...

Quel giorno, le librerie fecero affari d'oro vendendo testi di astronomia. Il pubblico, a tutta prima apatico, adesso si mostrava tremendamente interessato. Perfino antichi e muffiti esemplari dei Principia di Newton andarono venduti a peso d'oro. L'etere era un continuo intrecciarsi di roboanti commenti sulla nuova meraviglia dei cieli. Assai pochi di questi commenti erano professionali, o anche soltanto intelligenti. Poiché quel giorno la maggior parte degli astronomi dormiva. Erano riusciti a restare svegli per quarantott'ore filate, da quando era iniziato il fenomeno, ma il terzo giorno li aveva trovati esausti di mente e di corpo, e inclini a lasciare che le stelle se la sbrigassero da sole mentre loro — gli astronomi, non le stelle — si rifacevano del sonno perduto.

Offerte astronomiche da parte degli studi radiofonici e televisivi indussero alcuni di loro a tentare delle conferenze, ma i loro sforzi furono cose orrende che è meglio dimenticare. Il dottor Carver Blake, trasmettendo alla KNB, cadde addormentato tra un apogeo e un perigeo.

Anche i fisici erano molto richiesti. Tuttavia, il più eminente tra i fisici fu cercato invano. L'unico, solitario indizio della scomparsa del dottor Milton Hale, «Presi soldi. Spiegherò dopo», non fu di molto aiuto. Sua sorelia Agatha temeva il peggio.

Per la prima volta nella storia, notizie di astronomia occupavano i titoli di testa dei giornali.

La neve aveva cominciato a cadere quella mattina, sul presto, lungo lo zoccolo continentale dell'Atlantico del Nord, e adesso la situazione meteorologica stava peggiorando continuamente. Proprio appena fuori di Waterbury, Connecticut, il conducente del tassì del professor Hale comincio a dar segni di cedimento.

Non era umano, pensò, che ci si aspettasse che un uomo guidasse fino a Boston e poi, senza praticamente fermarsi, da Boston a Washington. Neppure per cento dollari.

Comunque, non con una bufera di neve come quella. Diamine, riusciva a vedere si e no per una dozzina di metri davanti a sé, nel turbinio, anche quando riusciva a tenere gli occhi aperti. Il suo passeggero se la dormiva sonoramente sul sedile posteriore. Forse, si, avrebbe potuto fermarsi per un'ora qui, lungo la strada, per rifarsi d'un po' di sonno perduto. Il suo passeggero non si sarebbe neppure accorto della differenza. Quel tizio doveva esser proprio uno svitato, pensò, altrimenti perché non aveva preso un treno o un aereo?

Il professor Hale avrebbe anche potuto farlo. Ma non era abituato a viaggiare, e inoltre c'era il Tartan Plaid. Un tassì gli era parso il modo più facile per arrivare dappertutto — niente preoccupazioni per i biglietti, le coincidenze, le stazioni. Non era questione di soldi, e le condizioni della sua mente sotto l'influsso del Tartan gli avevano fatto trascurare il fattore umano che fatalmente sarebbe entrato in gioco in un viaggio in tassì di quella lunghezza.

Quando si svegliò, quasi congelato, nel tassì parcheggiato, quel fattore umano non poté più essere trascurato. Il tassista era addormentato così profondamente che non si svegliò neppure ai più energici scrolloni. L'orologio del professor Hale si era fermato, così non aveva la minima idea di dov'era e che ora fosse.

Inoltre, per sua sfortuna, non aveva nessuna idea di come guidare un tassì. Inghiottì una rapida sorsata di Tartan per non congelarsi del tutto, poi scivolò fuori dal tassì, e mentre faceva questo una macchina gli si fermò accanto.

Era un poliziotto — e per di più il poliziotto giusto su un milione.

Urlando sopra il frastuono della bufera, Hale si appellò a lui.

«Sono il professor Hale», gridò. «Ci siamo perduti. Dove mi trovo?»

Entri qui prima di gelare», gli intimò il poliziotto. «Vuol dire il professor Milton Hale, per caso?»

«».

«Ho letto tutti i suoi libri, professor Hale», dichiarò il poliziotto. «La fisica è il mio hobby, e ho sempre desiderato incontrarla. Volevo chiederle appunto del valore revisionato del quantum...»

«È una questione di vita o di morte», l'interruppe il professor Hale. «Mi può portare in fretta al più vicino aeroporto?»

«E, senta... c'è un tassista, dentro quella macchina. Congelerà, se non gli manderemo aiuto».

«Lo metterò sul sedile posteriore della mia auto, e poi spingerò il tassì fuori della carreggiata. Ci occuperemo poi dei particolari».

«Faccia presto, per favore».

Il compiacente poliziotto si affrettò. Poi tornò dentro e mise in moto.

«A proposito del valore revisione del quantum, professor Hale», ricominciò il poliziotto, ma subito s'interruppe.

Il professor Hale era piombato in un sonno profondo. Il poliziotto guidò fino all'aeroporto di Waterbury, uno dei più grandi del mondo da quando lo sviluppo di New York City verso nord, negli anni Sessanta e Settanta, gli aveva conferito una posizione centrale. Svegliò con delicatezza il professor Hale, quando si trovò davanti alla biglietteria.

«L'aeroporto, signore», gli annunciò.

Il professor Hale era già balzato fuori dell'auto prima ancora che avesse finito di pronunciare queste parole, e correva incespicando verso l'edificio, gridando «Grazie!», voltandosi a salutarlo e quasi cadendo a terra nel farlo.

Il ruggito dei motori di un superstratosferico che si stavano scaldando, là fuori nel campo, aggiunse ali ai suoi piedi, mentre si precipitava verso lo sportello dei biglietti.

«Che aereo è quello?» urlò.

«Il Washington Special. Parte tra un minuto. Ma non credo che ce la farà a prenderlo».

Il professor Hale sbatté una banconota da cento dollari sul banco. «Biglietto», rantolò. «Tenga il resto».

Ghermì il biglietto e si precipitò di corsa, acchiappando l'aereo proprio nell'istante in cui le porte si chiudevano. Ansando, si lasciò cadere su un sedile, col biglietto ancora stretto tra le dita. Dormiva come un ghiro prima ancora che l'hostess, a tentoni, riuscisse ad agganciargli la cinghia.

Un po' più tardi, l'hostess lo svegliò. I passeggeri stavano scendendo.

Il professor Hale si precipitò fuori dall'aereo e attraversò di corsa il campo fino agli edifici dell'aeroporto. Un grosso orologio appeso nell'atrio l'informò che erano le nove, e cacciò un sospiro di sollievo mentre correva verso un'uscita contrassegnata TASSÌ.

Sali su quello più vicino.

«Casa Bianca», disse al tassista. «Quanto ci vuole?»

«Dieci minuti».

Il professor Hale cacciò un nuovo sospiro di sollievo e si lasciò andare contro i cuscini. Stavolta non ripiombò nel sonno. Adesso era del tutto sveglio. Ma chiuse gli occhi, per riflettere sulle parole più adatte a spiegar chiaramente le cose.

«Ci siamo, signore».

Il professor Hale cacciò tra le mani del tassista una banconota e balzò fuori dalla macchina, infilandosi nell'edificio. Non era còme si aspettava. Ma c'era un banco e corse lì.

«Devo vedere il Presidente, presto. È d'importanza vitale!»

Il professor Hale sgranò gli occhi. «Il Presidente degli... ehi, dica, che edificio è questo? E di che città?»

L'impiegato inarcò ancora di più le sopracciglia. «Questo è l'Hotel Casa Bianca, Seattle, Washington».

Il professor Hale svenne. Si svegliò in un ospedale tre ore più tardi. Allora era mezzanotte, ora del Pacifico. E questo significava che erano le tre del mattino sulla costa orientale. In effetti, era stata mezzanotte esatta a Boston e a Washington, D.C., quand'era disceso di corsa dal Washington Special a Seattle. Il professor Hale corse alla finestra e agitò i pugni, tutti e due, contro il cielo. Un gesto futile.

A oriente, tuttavia, la tempesta di neve era cessata al cader della notte, lasciando una leggera bruma nell'aria. Al che il pubblico, ormai sensibilizzato alle stelle, tempestò gli uffici meteorologici per chiedere quanto sarebbe durata la nebbia.

«È prevista una brezza dall'oceano», si sentirono rispondere. Anzi, è già cominciata. Nel giro di un'ora o due avrà spazzato via la nebbiolina».

Alle undici e dieci il cielo di Boston era perfettamente sgombro.

Migliaia e migliaia di persone affrontarono il gelo pungente e si riversarono fuori, fissando col naso all'insù la sfilata di quelle stelle non più eterne. Ciò che videro... era del tutto incredibile.

Cominciò a udirsi un mormorio sbalordito, che lentamente crebbe d'intensità, finché, un quarto a mezzanotte, la cosa fu certa, al di là di ogni dubbio. Il mormorio tacque per un attimo, poi crebbe, sempre più fragoroso, raggiungendo l'apice a mezzanotte. Gente diversa reagisce in modo diverso, naturalmente, come ci si può aspettare. Vi furono risate, come pure indignazione, cinico divertimento come pure uno sconvolto orrore. Vi fu perfino ammirazione.

Ben presto, in certi punti della città, vi fu un movimento concertato da parte di coloro che conoscevano un certo indirizzo di Fremont Street. Un movimento convergente, in parte a piedi, in parte su veicoli pubblici.

Cinque minuti prima di mezzanotte, Rutherford R. Sniveley se ne stava seduto, in attesa, dentro la sua casa. Si negava il piacere di guardare fino a quando, all'ultimo momento, la cosa non fosse stata completata. Sentì urlare il suo nome. Ma continuò ad attendere, cocciutamente, fino a quando l'orologio non ebbe battuto il dodicesimo rintocco. Poi uscì sul terrazzo. Per quanto bramasse guardare in alto, per prima cosa si costrinse ad appuntare lo sguardo giù in strada. La folla turbinante si accalcava laggiù, rabbiosa. Ma lui, per quella folla, provava soltanto disprezzo.

Anche le macchine della polizia, arrivate a gran velocità, si stavano fermando laggiù, e riconobbe il sindaco di Boston che usciva da una di esse, insieme al capo della polizia. E con ciò? Non c'era nessuna legge che prevedesse quel caso. Poi, dopo essersi negato il supremo piacere abbastanza a lungo, girò gli occhi verso il cielo silenzioso, ed eccola là. Le quattrocentosessantotto stelle più luminose che formavano, in cielo, la scritta

 

USATE

IL SAPONE

SNIVELY

 

La sua soddisfazione durò soltanto un secondo. Poi il suo volto cominciò ad assumere una tinta purpurea apoplettica.

«Mio Dio!» farfugliò il signor Sniveley. «C'è un errore di ortografia!»

Il suo volto divenne ancora più purpureo, poi, come un albero schiantato dal fulmine, crollo all'indietro attraverso la portafinestra.

Un'ambulanza portò in fretta il magnate caduto al più vicino ospedale, ma qui si accertò subito che era già morto — per apoplessia.

Ma, ortografia sbagliata o no, le stelle tornate fisse mantennero la posizione che avevano assunto a mezzanotte in punto. Il movimento aberrante era cessato, e le stelle tornate immobili compitavano: USATE IL SAPONE SNIVELY!

Fra le molte spiegazioni offerte da tutti i più svariati personaggi che professavano una qualche conoscenza di astronomia o di fisica, nessuna fu più acuta — o più vicina alla verità — di quella avanzata da Wendell Mehan, presidente dell'emerita Società Astronomica di New York.

«È ovvio che il fenomeno è un gioco della rifrazione», disse il dottor Mehan. «È del tutto impossibile che una qualunque forza concepita da un uomo possa muovere una stella. Perciò le stelle occupano ancora il loro vecchio posto nel firmamento.

«La mia ipotesi è che Sniveley abbia elaborato un modo per rifrangere la luce delle stelle, in qualche punto all'interno dell'atmosfera terrestre, o appena sopra ad essa, così da fornire l'impressione che abbiano cambiato la loro posizione. Con ogni probabilità ciò è ottenuto grazie alle onde radio o qualcosa di simile — forse non con una sola trasmittente, ma con quattrocentosessantotto singoli apparecchi disseminati sulla superficie di tutta la Terra. Anche se non riusciamo a capire come ciò possa esser fatto, non è impossibile che i raggi luminosi possano venir deviati da un campo d'onde allo stesso modo in cui opera un prisma, o le forze gravitazionali.

«Dal momento che Sniveley non era un grande scienziato, immagino che la sua scoperta sia stata empirica, più che secondo logica — una scoperta accidentale, insomma. È anche possibile che, se il suo proiettore verrà scoperto, ciò non consenta agli scienziati di capirne il segreto, non più di quanto un selvaggio sia in grado di comprendere il funzionamento d'un semplice apparecchio radio, smontandolo.

«Dico questo perché mi sembra ovvio il fatto che questa particolare rifrazione è un fenomeno tetradimensionale, altrimenti i suoi effetti sarebbero puramente locali e limitati a una sola porzione del globo. Soltanto nella quarta dimensione e possibile che la luce venga rifratta in questo modo...»

C'erano molte altre cose, ma è meglio saltare all'ultimo paragrafo:

«Non è possibile che questo effetto sia permanente... in altre parole, che duri anche quando avrà cessato di funzionare il proiettore di onde che lo causa. Presto o tardi la macchina di Sniveley verrà trovata e spenta, oppure si consumerà e si guasterà da sola. Senza dubbio contiene parti delicate che un giorno si bruceranno, come fanno le valvole delle nostre radio...»

La bontà dell'analisi del dottor Mehan fu dimostrata, due mesi e otto giorni più tardi, quando la Compagnia dell'Energia Elettrica di Boston interruppe, per il mancato pagamento della bolletta, l'erogazione della corrente a una casa situata al 901 di West Rogers Street, a dieci isolati di distanza dalla dimora di Sniveley. Nel medesimo istante dello spegnimento, eccitatissimi resoconti dall'emisfero notturno della Terra portarono la notizia che le stelle erano ritornate, di colpo, alle loro precedenti posizioni.

Si condussero indagini in base alle quali si appurò che un certo Elmer Smith, il quale aveva comperato quella casa sei mesi prima, corrispondeva perfettamente alla descrizione di Rutherford R. Sniveley: senza alcun dubbio, perciò, Elmer Smith e Rutherford R. Sniveley erano la stessa persona.

All'ultimo piano di quella casa fu trovato un complicatissimo impianto comprendente 468 antenne radio, ognuna di diversa lunghezza, e tutte rivolte in differenti direzioni. Cosa strana, la macchina alla quale erano collegate non era più grande d'una trasmittente da radioamatore anche se, in base ai dati della compagnia elettrica, consumava una quantità esorbitante di corrente.

Per precisa disposizione del Presidente degli Stati Uniti, il proiettore fu distrutto senza esaminarne la struttura interna. Da molte parti si levarono chiassose proteste contro una decisione così arbitraria dell'esecutivo. Ma, dal momento che ormai il proiettore era stato fatto a pezzi, le proteste non servirono a nulla.

Cosa ancor più sorprendente, tutta la faccenda non ebbe serie ripercussioni.

Roger Phlutter uscì di prigione e sposò Elsie. Il professor Milton Hale sì accorse che Seattle gli piaceva, e vi restò. Anche perché aveva scoperto che, a una distanza di duemila miglia da sua sorella Agatha gli era possibile, per la prima volta, sfidarla apertamente. Oggi, Milton Hale si sta godendo assai di più la vita ma, si teme, scriverà assai meno libri.

Rimane un ultimo fatto, che è assai più penoso da considerare, dal momento che esso si riflette assai profondamente sul reale livello dell'intelligenza umana. E consente di provare, altresì, che l'ordine tassativo impartito dal Presidente era più che giustificato, malgrado le proteste degli scienziati.

Il fatto è umiliante, e allo stesso tempo illuminante. Durante i due mesi e otto giorni che videro in funzione il proiettore di Sniveley, le vendite del Sapone Sniveley aumentarono del 915 per cento.

 

FINE